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Sulla soglia della natura, sovrastati dal tempo

​di Roberta Dapunt

A te che della fede ami il silenzio e contempli gli alti monti quando si chiudono le mani nell’ora canonica. Insieme sappiamo che l’Ave Maria è una fenditura di labbra che schiera all’ufficio le corde vocali. Recita la mente in affine voce una mite preghiera e si contentano gli arti, riposano. Poggiano sul grembo queste mani e non vi è immagine più completa nella devozione che vi passa attraverso e si compie negli incardinati piedi. Nulla si definisce in questo quadro eppure credimi, a guardarti è infallibile benessere. Ti guardo e ti ascolto e mi chiedo chi di noi due abbia il corpo più contento.
Raccolgo in prosa questi versi che ho rivolto ad una donna per me molto importante e che mi ha insegnato a contemplare i luoghi che abito attraverso l’umiltà del suo parlare in accordo con Dio. Un incontro di volontà che a me non succede. Molte volte invece ho potuto osservare l’immagine di lei seduta davanti alla porta di casa, in preghiera e di fronte ad una delle più belle pareti rocciose in questa porzione di terra. L’armonia di un paesaggio che non dimenticherò, così importante, così essenziale, così giusta che ogni altra cosa in quel momento sarebbe stata nulla.
Vivo con le montagne intorno, la visuale abituata a partire dal basso, arriva all’altezza del loro orizzonte e non oltre. Si chiamano Dolomiti, hanno i tratti armoniosi e arrossiscono meravigliosamente all’ultimo sorriso di sole. Nelle mie scritture mi piace la parola “appartenenza”, di questa, uso volentieri anche le espressioni sinonime, poiché in ogni verso è la conoscenza fisica di ciò che dico. I miei luoghi li attraverso dentro ai miei versi, scrivo ciò che so e da questo microcosmo alpino cerco di essere in relazione col mondo. Fare parte costituisce il fondamento, è la relazione necessaria, l’unica possibile per garantire la continuità di una realtà rurale che ha permesso di vivere in alta montagna per millenni. È consistenza dura, difficile, che esige concretezza di corpo, in virtù di un diritto che si ha o si crede di avere. Considero la mia appartenenza a questi luoghi un privilegio.

L’amo così, lungo il colmo di abeti in pastura di quiete, / quando si fanno orlo i freddi campi e le nutrite nubi / e si leva una conversazione muta tra libertà e misericordia.

Alcuni anni fa risposi in versi alla richiesta di raccontare qualcosa sulla mia vita, tra le prime immagini la mia appartenenza alla flora alpina. I boschi di conifere dagli antichi abeti, i larici, i pecci e i cembri, gli arbusti di ginepri alpini, il pino mugo, il rododendro. Sono presenza necessaria dentro al mio sguardo, ovunque esso si posi. La finestra che amo nella mia casa, è quella che dalla cucina mi accompagna dentro al bosco, talmente vicino da poter respirare l’aria che si muove tra le resine degli alberi. Cucino con i loro odori nella pentola e senza intermedio, godo di questo favore.
Non ho mai scritto nel bosco, non ci riuscirei, troppo prestigio. Mi serve la chiusura di una stanza per questo. Ci cammino invece, ogni volta un’immersione nella verticalità che stimola il rispetto. Così il silenzio diventa immancabilmente la celebrazione di una solennità. Non dire nulla in questi momenti è dire meglio, lascia spazio all’ammirazione e non serve altro. Di lui ho scritto rare volte.
Il bosco di Ciaminades ora è ferito, come lo sono i boschi intorno, la sua lacerazione profonda è ormai un dolore spirituale.

Corpo nostro, che sei campo di bosco
rami maestri sono le gioie, sono le pene.

Pochi mesi fa abbiamo coperto i tronchi che hanno teso al suolo qualche centinaio di anni, il tempo intorno presenta ora un silenzio leso. Questa è la natura, forza maggiore di un sistema totale che non riusciamo a capire quando ci mostra la sua potenza. Ci toglie l’equilibrio mentre lei anche nelle più forti tormente, il giorno dopo sarà di nuovo in stato di quiete. Dal mio bosco imparo una misura di tempo che non potrò mai vivere, quando non ci sarò più, lui avrà il vigore e l’aspetto della giovinezza.