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Sulla mangiatoia cambia la storia

​Ermes Ronchi

La grande ruota della storia aveva sempre girato nella stessa direzione: dal piccolo verso il grande, chi ha di meno sottomesso a chi ha di più, il debole schiacciato dal forte. Quella notte la grande ruota della storia, per un attimo, alla nascita di Gesù si è bloccata. C’è stato un nuovo in principio e da lì qualcosa ha cominciato a girare all’incontrario e il senso della storia ha imboccato un’altra direzione: Dio verso l’uomo, il grande verso il piccolo, dal cielo verso il basso, da una città a un villaggio, dal tempio a una grotta, i re dell’Oriente verso un bambino.
Dio nella piccolezza: è questa la forza dirompente del Natale. Quella notte è il nuovo asse della storia attorno a cui danzano i secoli e i giorni, una stalla è il luogo dell’infinito, la liturgia più santa si celebra sulla paglia, nelle carezze di una madre e nel pianto di un bimbo.
Quel Dio che in principio ha plasmato Adamo con la polvere del suolo si fa lui stesso polvere di questo suolo. Il vasaio diventa lui stesso argilla di un piccolo vaso, fragile e bellissimo.

Un bambino in mezzo a noi
«Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia» (Lc 2,7), in un luogo di fortuna, riservato agli animali, un luogo di seconda scelta, che aveva cercato di evitare.
Ma su quella carne si china la tenerezza: è avvolta in fasce, in cure amorevoli che colmano il bambino. A Betlemme Dio è, con tutto se stesso, solo mendicante d’amore, del dono più potente che possa offrire la terra, l’affetto invincibile di una madre e di un padre.
Sua madre lo nutrirà di latte, di carezze e di sogni, suo padre lo nutrirà con il lavoro e la protezione. Il piccolo Gesù potrà sopravvivere sulla terra solo perché qualcuno si prende cura di lui; potrà essere felice sulla terra solo perché amato, come ogni bambino. Dio vive per il nostro amore. Tocca agli uomini prendersi cura di Dio. Gesù ci insegnerà a farlo nel Padre nostro, chiedendo all’uomo per tre volte di interessarsi della causa di Dio, del suo nome, del suo regno, della sua volontà.

Betlemme, “Casa del pane”
La mangiatoia, che la madre nell’emergenza legge come una culla, è il luogo del cibo, non per gli uomini, ma per gli animali. Il cibo è sempre sacro perché conserva la cosa più sacra che esiste: la vita. Nel cibo passa tutto il creato, il sole e la pioggia, l’erba dei campi, gli animali e la mano dell’uomo.
La mangiatoia diventa l’arca della prima e vitale alleanza con tutto ciò che vive sotto il sole.
Nella mangiatoia (in latino praesepium) s’intrecciano esclusione e comunione, che saranno, per tutta la sua vita, la caratteristica di Gesù. 
Nasce colui che in vita non avrà dove posare il capo, povero come le volpi e gli uccelli che pure hanno tane e nidi (Lc 9,58). Perfino il sepolcro gli sarà dato in prestito (Mt 27,60). È l’ospite che sta fuori, alla porta, e bussa (Ap 3,20) e attende che gli si apra.
Fasce e mangiatoia incarnano la cifra di un Dio innamorato di quotidiano, ma contengono anche un anticipo del Vangelo totale. Tanto è vero che in molte icone orientali della Natività, il Bambino è deposto in una culla che ha la forma di un sarcofago ed è avvolto in fasce esattamente come un defunto preparato per la tomba.
Il mistero del Natale apre già sul mistero della Pasqua, il legno della mangiatoia evoca il legno della croce, la notte anticipa l’ora del buio su tutta la terra.
A Betlemme, “Casa del pane”, è deposto in una mangiatoia un bambino che un giorno dirà: «Io sono il pane», sono un Dio da mangiare, da nutrirsene, da esserne vivi.
Il pane è un segno bellissimo e terribile. Passa attraverso la macina e il fuoco, fa vivere e si annulla, nutre e scompare. Dio come pane ti alimenta e scompare in te. Fino a questo punto va l’incarnazione! L’amore non ha protetto Dio, lo ha esposto. L’amore espone e disarma, e mette Dio a rischio perfino di essere rifiutato. Ma Dio, lui, non potrà mai rifiutare l’uomo. Questa è la forza invincibile del Natale. Il Verbo si è fatto pane. Non so spiegare, ma è così bello! Guardo il Bambino, il neonato che cerca il latte della madre, e dico: il Verbo si è fatto fame.
Non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di lui: il Verbo si è fatto bisogno.
Penso agli abbracci che Gesù ha ricevuto e poi ha riservato ai piccoli e agli amici, e dico: il Verbo si è fatto carezza.
Penso al pianto di Gesù quando giunge alla tomba dell’amico Lazzaro, davanti a Gerusalemme, e dico: il Verbo si è fatto lacrime. Penso a quel grumo di fango che Gesù mette sugli occhi del cieco, come una minima creazione e dico: il Verbo si è fatto polvere, mano e saliva, e occhi nuovi.
Poi penso alla croce: il Verbo si è fatto agnello, carne in cui grida il dolore. E con me che piango anche lui imparerà a piangere, e se tu devi morire anche lui conoscerà la morte.
Guardo il Bambino: i suoi occhi sono gli occhi di Dio, la sua fame è la fame di Dio, quelle mani che si tendono verso la madre sono le mani di Dio che si protendono verso di me.
Colui che ha camminato su tappeti di galassie si fa piccolo e ricomincia da Betlemme, da una mangiatoia. Colui che ha separato luce e tenebra, firmamento e terra, si fa inchiodare su una croce. Ci deve, per forza, essere qualcosa di vero in questo troppo disarmato amore. Dio è là dove la ragione si scandalizza, dove la logica si arresta.
E se della storia di Gesù i due vertici sono una mangiatoia e una croce, questa nostra fede non può che venire da Dio, non è invenzione d’uomo. A Betlemme non c’è nessun inganno, nessun raggiro, nessuna menzogna: lo garantiscono una mangiatoia e una croce.
Risuonano le parole di Angelus Silesius: «Se anche Cristo fosse nato mille volte a Betlemme, ma non nasce in te, allora è nato invano».
Lo Spirito si fa carne perché la carne si faccia Spirito.
A Natale la Parola è un bambino che non sa parlare. L’Eterno è un neonato, appena il mattino di una vita.
Come ogni figlio d’uomo che nasce, Gesù vivrà solo se qualcuno si prenderà cura di lui, vivrà solo perché amato. Dio viene ed è subito, con tutto se stesso, solo mendicante d’amore. Dio si mette nelle tue mani, vivrà se tu lo ami. Tu puoi essere la culla o la tomba di Dio.

Il censimento
Luca ci presenta i fatti con l’umile concretezza dei particolari e insieme con il respiro largo della storia del mondo. La prima condizione storica della nascita di Gesù è il censimento. Gesù nasce a Betlemme perché la grande macchina imperiale ha preteso questo pressante controllo su tutti, probabilmente per aggiornare l’anagrafe tributaria.
Qualcosa di minaccioso presiede alla nascita: “la tua vita mi serve per alimentare le casse dello stato”, un impero potente e brutale nel togliere dall’anonimato Maria, Giuseppe e il bambino.
Nella profondità del disagio di questo meccanismo, quando l’uomo è semplicemente ridotto a numero e quantità, si produce la nascita dell’uomo nuovo. Là dove l’uomo conta solo come numero, nella riduzione della dignità a mera quantità, la storia si capovolge.
La pressione della tenebra della storia costringe quasi Dio a rivelare la luce. Mentre a Roma si decidono le sorti del mondo, mentre l’impero mantiene la pace per mezzo delle legioni, in questo meccanismo perfettamente oliato cade un granello di sabbia, nasce un bambino, sufficiente a mutare la direzione della storia. La nuova capitale del mondo è Betlemme.
Dio sembra giocare con la storia degli uomini! Ma è la sua misteriosa e mai revocata scelta: quella di fare storia con chi non ha storia, di scegliere ciò che nel mondo è debole per confondere i forti.

Le fasce e la mangiatoia
Appena sette versetti fissano, nel Vangelo di Luca, il ricordo della nascita. La sobrietà, la concisione estrema di quelle poche frasi rispecchiano la scelta di Dio: si fa uomo, anzi bambino; sceglie una stalla, lontana dai palazzi del potere, e quella stalla diventa “luogo dell’infinito”; nel silenzio, fra i poveri, con la liturgia umile di ogni figlio d’uomo che nasce e dipende dagli altri.
Un neonato non può far paura: si affida, vive solo se qualcuno lo ama e si prende cura di lui.
Ecco il prodigio più grande: Dio di carne. Parola rivoluzionaria: l’impensabile di Dio, la vertigine della storia, il perno che segna un prima e un dopo nel conto degli anni.
Non potevamo certo desiderare avventura maggiore.
La sua nascita è davvero l’estasi della storia, il nuovo asse del tempo attorno al quale danzano i secoli e i giorni.