Sono un albero e scrivo le mie radici
Sono nato in campagna, al centro del quadrilatero che ha ai vertici Padova, Verona, Vicenza e Rovigo. Tra la casa, i campi, la stalla, la chiesa, il fiume e la scuola. Ero convinto che quel paesaggio era il mondo, che il mondo era tutto così. Che gli uomini erano, dappertutto, come i contadini. Li vedevo lavorare. Curare le bestie, in stalla. Arare i campi, schioccando la frusta. Giocare in osteria. Partire per le armi. Pensavo che dappertutto i battesimi, i matrimoni e i funerali si facessero come da noi, con la stessa idea della vita e della morte, del di qua e dell’aldilà, di Dio e della giustizia. Si cuoceva il pane una volta al mese nel forno del paese, si riempiva un cassone che poi s’infestava di formiche, sicché mettendo il pane in bocca si sentivano i passettini delle formiche che camminavano sulla lingua e sulle tonsille. Nostra madre c’insegnava a non sputare, perché le formiche sono animaletti puliti. Se in qualche casolare sperduto c’era un malato, si prolungava la processione per fargli visita, tutti i paesani, prete in testa.
Tra questa gente pacifica la guerra è arrivata come una martellata sul cranio: il cervello s’è spappolato, quel che prima era giusto diventava colpa, e viceversa. Quando la seconda guerra mondiale finiva avevo dieci anni. I carabinieri vennero a prendere mio padre per mandarlo al fronte: vennero in due, in moto, non gli diedero il tempo di vestirsi, e lui dovette partire a piedi, mentre loro lo seguivano in sella, col motore al minimo. Pareva un prigioniero. Quella scena m’ha caricato nel cervello un’idea immortale: la guerra è guerra contro tutti, anche contro il proprio popolo. Di colpo sono apparsi i tedeschi. Armati, crudeli, davano ordini abbaiando in una lingua sconosciuta, nessuno capiva ma bisognava obbedire. Ho raccontato tutto questo nei miei libri d’esordio, Il Quinto Stato e La Vita Eterna.
A scuola m’avevano insegnato che il dialetto era una vergogna, conoscere stalle buoi campi frumento mucche vitelli aratri non era cultura, era ignoranza.
Nel microscopico paese, cattolicissimo, in cui sono nato e cresciuto, vicino al borgo medievale di Montagnana (vero centro della mia infanzia), alla morte di mia madre, mio padre e mio fratello vollero onorarla donando alla chiesa un altare. Ho raccontato la donazione e la costruzione in un libro intitolato Un altare per la madre. Lo credevo un libro locale, di nessun interesse nazionale o internazionale. Invece fu tradotto in tutta Europa, in Nord e Sud America, anche in Unione Sovietica, atea e comunista, anche in Paesi islamici, che non sanno cos’è un altare. Perché rinascere in un simbolo di salvezza è l’idea d’immortalità sepolta in un fondo antropologico comune, pagano, tribale, pre-cristiano, cristiano… È arrivato nel paese un prete che veniva dal Brasile, ha letto quel libro e ha voluto che tutti quelli che càpitano nella chiesa possano vedere bene l’altare, perciò ha accorciato la tovaglia che lo ricopre. Questo è il premio più alto che il libro ha avuto, non il premio Strega, che in confronto non conta niente.
Nei miei paesi, Montagnana, Este, Legnago, Bevilacqua… i tedeschi occupanti hanno infierito come belve. Ho raccontato tutto. La traduzione dei miei libri in Germania ha fatto aprire un processo contro il comandante tedesco, ancora vivo. I miei libri erano documenti a carico, nella doppia lingua, italiana e tedesca. Il comandante tedesco morì d’infarto. Quando torno nei miei paesi, guardo i contadini al lavoro e dentro di me gli dico: «Per voi, ho fatto quel che ho potuto».
Ho fatto una lunga, paziente, profonda analisi freudiana, con un analista dei Colli Euganei. Ho messo tutto ne La malattia chiamata uomo. L’analista anni dopo mi ha raccontato che i suoi pazienti discutevano e correggevano il mio libro, perciò passando sui Colli mi pareva che la mia analisi fosse sempre in corso, con le sue battaglie contro i tabù, i traumi, i rimorsi, i ricordi. Io sono un albero, e queste sono le mie radici.