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Quel ponte costruito dai poeti

Roberto Mussapi

L’infinito non è la dimensione della poesia, ma la sua meta. Ogni poeta bracca l’infinito. Per alcuni si tratta di coglierne i segni percettibili, farli parola, farli carne. Per Dante, Eliot, Baudelaire, l’infinito esiste, è la nostra prima dimora. Per altri l’infinito è oggetto di desiderio, di aspirazione a volte affamata: Leopardi, Rimbaud, John Keats lo cercano, vi anelano. Sempre ne trovano frammenti, che in poesia sono attimi, momenti estatici. «La mia pena è durare oltre quest’attimo»: Luzi, che dell’infinito è cantore supremo perché infinitamente e fanciullescamente e sapienzialmente innamorato di tutte le sue manifestazioni naturali, terrene e umane, accetta però la pena della subitanea uscita dall’incanto. L’infinito è in noi e fuori di noi, attingibile per visioni e rapimenti estatici. Che l’uomo vive, senza saperlo, quando il poeta lo sa e ne fa sacrificio e scienza, ne fa opera.
Più ancora che «non riconosciuto legislatore dell’umanità», come peraltro scrive genialmente Shelley, è il portavoce dell’infinito. Che non gli appartiene, ma che ci aiuta a appercepire, nel finito. Il “correlativo oggettivo” scoperto e praticato da Eliot, «scrivere di realtà immateriali e atemporali attraverso immagini, concrete» pare una metafora dell’incarnazione: l’uomo cerca l’infinito nel finito, essendo carne e spirito.
Quando, in un mio verso, il poeta arabo risponde al califfo Harun al Rashid –  che gli pone domande essenziali e assolute, di notte, nell’oasi del deserto – «il poeta è la quintessenza di un uomo», non sta assolutamente divinizzando il poeta, niente di superomismo, ma al contrario indica la forza dell’azione che attinge al profondo di ogni uomo. E spesso, quando l’uomo diviene lettore, vi ritorna. Il poeta è la quintessenza dell’uomo perché manifesta con la sua opera, accanitamente e a volte estaticamente, il desiderio primordiale, assoluto di ogni uomo: essere infinito, durare per sempre. Dopo la morte, continuare a vivere, ma anche, nel corso della vita mortale, essere abitato dall’infinito o abitante dell’infinito, e quindi comprendere magicamente gli altri, ed essere come magicamente compreso. L’uomo è un cacciatore d’infinito, consapevolmente o meno. E il poeta è ambasciatore di questo anelito, di questa passione congenita alla specie.
L’uomo cerca l’infinito quando diviene tale: appena urla e piange davanti a un suo simile che cade morto, lo tocca e grida (e poi lo seppellirà, gli farà onore, e poi lo ricorderà, memoria, lapide, pietra scritta) non è più ominide, è uomo. Soffre per la scoperta tragica che la vita è una realtà che si svolge nel finito. Il suo grido e il suo pianto provano che l’uomo, quello che ora è uomo, sente che esiste, che deve esistere l’infinito, e che se uno muore è un’ingiustizia, una porta dell’infinito che ti viene sbattuta in faccia. Ma non si ferma. Onora il morto, cerca l’infinito nella memoria, guarda oltre quell’esistenza finita.
L’uomo diviene poeta per rispondere a questo strazio e sostenere la memoria che allo strazio risponde; diviene poeta, nello stesso tempo, per cantare la gloria del finito. Se non ti affascina la superficie non hai speranze di intravvedere il profondo.
Il poeta è un uomo, che vive nel finito, lo ama, ne gusta ogni brandello o particolare, che però sente fuggevole e fuggente per sempre se non trovando il suo spazio nell’infinito. Se presupponi di vivere nell’infinito, e basta, perché scrivere? Che bisogno ne hai, che bisogno ne hanno gli altri? No, scrivere (e dipingere, scolpire, fare cinema: forme di poesia, seppur prive dell’assolutezza incorporale della parola, spirito fatto tatuante) significa cercare il ponte tra finito e infinito. E il miracolo dell’infinito (che non è vuoto, è gioiosamente ordinato da una mente) sta nel fatto che i poeti trovano sempre quel ponte: che credano di avere trovato l’infinito o soltanto il suo sogno, hanno trovato. Leopardi ha trovato. Ha edificato mirabilmente un ponte, guardando. Guardando gli «interminati spazi» e sì, vedendo e scrutando con gli occhi della mente “i sovrumani silenzi”. Ma anche implorando la custode argentea di misteri dell’infinito. La implorò, a nome di se stesso, il poeta, Giacomo Leopardi. E a nome dell’uomo primigenio che il grande poeta può essere, il pastore errante dell’Asia, il primitivo che non ha nemmeno capanna e non sa coltivare i campi: ma tutti e due, il sommo poeta e il pastore analfabeta, implorano la luna, custode dei misteri dell’infinito. Come il porcaro, incantato dalla stella del presepe, fissò rapito la stessa stella che i Magi, i supremi sapienti venuti da Oriente, mirarono incantati, davanti all’infinito che nasceva, in una grotta, nel finito.​