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Progettare per la vita, sfida che richiede umiltà

​Paolo Portoghesi

La strada e la piazza sono motivo dominante della mia attività teorica. Alla strada come luogo di incontro dedicai la mostra “La Presenza del Passato” (Biennale Architettura del 1980); alla piazza ho dedicato un libro e, nel 1985, proposi di bandire un concorso per costruire nelle periferie delle città italiane piazze per celebrare i 40 anni della Repubblica, proposta accettata dal governo di allora ma abbandonata dai successivi.
La piazza, specialmente in Italia, è un organo essenziale della città: è il luogo degli incontri, il luogo degli sguardi, il teatro della vita comunitaria. Le piazze che avevo proposto prevedevano l’eliminazione del traffico veicolare e la creazione di adeguate zone di parcheggio. Oltre a ciò le funzioni istituzionali, religiose, commerciali, ricreative dovevano essere scelte e dosate attentamente per garantire, nelle diverse ore del giorno, la presenza dei cittadini al di là delle differenze di età, di sesso, sociali. Senza questi accorgimenti le piazze avrebbero rischiato di diventare, come accade spesso per quelle moderne, degli slarghi o nodi di traffico veicolare.
Da tempo si obietta che le nuove piazze esistono già: sarebbero quelle virtuali in cui tutti si possono incontrare attraverso la rete. Osservazione fondata su una equiparazione tra le esperienze virtuali e quelle fisiche tipica della nostra società consumistica, che potrebbe portarci verso un mondo di replicanti.
A dispetto dei sogni, come architetto ho potuto raramente affrontare il problema della piazza. L’esempio più riuscito è a Tarquinia, ma quella che mi è più cara è piazza della Scala a Milano, più che per le sue qualità estetiche per una certa umiltà che riuscii a esprimere dopo più ambiziose ricerche, fondamentale quando si opera nel cuore di una città. Qualcuno aveva proposto di spostare il monumento a Leonardo e orchestrare una piazza adatta per manifestazioni politiche davanti a palazzo Marino. Mi accontentai invece di rievocare la soluzione ottocentesca con aiuole alberate e molte panchine in granito per chi vuole riposare e sentirsi in compagnia, e ho constatato che sono quasi sempre gremite. La sistemazione ha resistito a proposte di cambiamento e ho ricevuto qualche lode da milanesi che amano molto la loro città. A Milano ho passato molti anni come preside di una facoltà di architettura che voleva cambiare radicalmente la sua identità, e ho imparato ad amare questa città della cordialità e dell’accoglienza. I milanesi apprezzano l’uso di materiali tipici della città ottocentesca e ormai raramente adoperati, come la pietra di Cuasso al Monte le cui cave sono vicine all’esaurimento. Le materie fanno parte della identità della città e contribuiscono a quel senso di appartenenza così importante nella vita quotidiana.
Vorrei ricordare anche piazza San Silvestro a Roma in cui il mio progetto originario è stato assai maltrattato. Avevo immaginato una piazza accogliente di forma ovale, con aiuole alberate circondate da comodi sedili di travertino che riproducevano nella sagoma quelli disegnati da Michelangelo per il Campidoglio. Gradualmente l’idea è stata guastata: il Comune volle al centro una strada veicolare per i bus elettrici, la soprintendenza abolì le alberature con la motivazione, infondata, che nel centro storico di Roma gli alberi non ci sono mai stati, e impedì anche la realizzazione di un chiosco per la musica che riproponeva una delle funzioni svolte dalla vicina piazza Colonna, un tempo considerata il centro della città e oggi totalmente requisita dalla politica.
Vorrei concludere con i preziosi consigli che papa Francesco dà agli architetti, anche per le piazze del futuro. Nella sua enciclica Laudato si’ afferma: «È necessario curare gli spazi pubblici […] che accrescono il nostro senso di appartenenza, la nostra sensazione di radicamento, il nostro “sentirci a casa” all’interno della città che ci contiene ed unisce […] In tal modo gli altri cessano di essere estranei e li si può percepire come parte di un “noi” che costruiamo insieme». E nella Evangelii Gaudium osserva: «Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!»