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Pagine luminose per una via pulchritudinis

​​Questa è anche una testimonianza personale, perché vent’anni fa nel piccolo gruppo di persone convocate nella sede milanese di “Avvenire” per dare l’avvio a “Luoghi dell’Infinito” ero presente anch’io. Sinceramente mai avremmo sperato che si sarebbe raggiunto anche questo giro di boa e soprattutto in così bella, anzi, splendida forma. Sì, perché la caratteristica, non solo esteriore, della rivista si è da sempre affidata a una qualità che può essere senza esitazione rubricata sotto la categoria della bellezza. Essa brilla in ogni pagina patinata dell’intera raccolta dei fascicoli distribuiti nei vari mesi di questi vent’anni, soprattutto attraverso la straordinaria sequenza iconografica che intarsia i testi degli articoli.
Ma la bellezza è anche la stella polare della mission, come si è soliti dire, della stessa rivista. Il pensiero corre a quel grande teologo del Novecento che è stato Hans Urs von Balthasar che, col suo monumentale capolavoro Gloria, affermava che era necessario accostare ai due trascendentali, fondamento della teologia – ossia il verum e il bonum, la logica e la morale –, anche un terzo, quello del pulchrum, della bellezza appunto, trascurato negli ultimi tempi dalla speculazione sistematica, a differenza, ad esempio, di quanto accadeva nel passato con la via pulchritudinis, sentiero d’altura per raggiungere la vetta del divino.
Scriveva suggestivamente von Balthasar, combattendo questo impoverimento della teologia ma anche dell’intera esperienza ecclesiale: «Non si tratta di far scivolare la bellezza su una carreggiata laterale, tranquilla e poco frequentata, ma piuttosto di riportarla sulla strada principale abbandonata, senza per questo voler affermare che la prospettiva estetica debba sostituire quella logica ed etica». Questo intreccio tra bellezza, verità e bontà è stato quasi il programma della nostra rivista, sulla scia di una serie di stimoli provenienti dagli ultimi papi, a partire da Paolo VI col suo famoso discorso agli artisti radunati nella Cappella Sistina il 7 maggio 1964, per procedere con la mirabile Lettera agli artisti di san Giovanni Paolo II, fino alla riedizione, da parte di Benedetto XVI, dell’evento voluto da Paolo VI, con la convocazione degli artisti nella Sistina il 21 novembre 2009.
Infine, sarà proprio papa Francesco a suggellare questo itinerario con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium nella quale egli ha riservato un’ampia sezione (n. 167) proprio alla via pulchritudinis, fondandosi su un’affermazione di sant’Agostino: «Noi non amiamo se non ciò che è bello». Egli è convinto che «tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta a incontrarsi col Signore Gesù [...]. È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo linguaggio parabolico». È ciò che è stato ininterrottamente proposto in queste nostre pagine luminose, quasi “miniate” con immagini antiche e nuove, vere e proprie epifanie di bellezza. Non solo quella creata dal pennello o dallo scalpello governati dalle mani dell’uomo, ma anche la bellezza che il Creatore stesso ha effuso nell’universo. Non per nulla l’anonimo sapiente, forse di Alessandria d’Egitto, autore del libro biblico della Sapienza, non esitava a dichiarare: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore» (13,5). La natura diventa, così, simile a una pergamena – per usare una metafora della tradizione giudaica – sulla quale Dio ha steso un messaggio, una rivelazione, una Torah, accanto a quella che è contenuta nella Parola divina scritta, come si intuisce in quel mirabile inno del Salmo 19 (18): «I cieli narrano la gloria di Dio [...]. Il giorno al giorno ne affida il racconto [...] senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce [...]».
La bellezza è, poi, principio di speranza. Il suo antipodo è, infatti, la violenza personale e bellica che infrange sia l’armonia del creato sia quella della creatura-prodigio – come diceva il Salmista (139,14) – che è la persona umana. Nella nostra lingua ci sono due vocaboli affini che hanno, però, un duplice e distinto significato: dal termine “brutto” derivano “bruttezza”, che è lo squallore estetico, e “bruttura”, che designa invece la degenerazione morale. Entrambe queste realtà s’intrecciano tra loro e producono infelicità, desolazione e spesso disperazione. Ritornare ad amare la bellezza, a scoprirla e custodirla nella natura e nel volto della vita umana, diventa una sorgente di fiducia, speranza e salvezza. Solo così si può ripetere in modo autentico l’abusato (e spesso stereotipato fino all’enfasi) asserto di Dostoevskij sulla «bellezza che salverà il mondo».
 
di Gianfranco Ravasi