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Nei monti il grembo santo della Madre Terra

​Roberta Dapunt


Sapersi inferiori. Succede all’essere umano di essere molto piccolo quando sta in mezzo alla natura. Dentro alla natura si esprime il fascino e una chiara separazione che ci pone in un particolare atteggiamento di riverenza. Non ci sono preferenze nella natura, tutto è sacro, l’aria, l’acqua, la terra, anche noi. La misura inarrivabile, è lei che porta l’essere umano a un bisogno di salire, cercare un punto elevato, che sia più alto della misura quotidiana. Che sia per essere più vicini al cielo o più lontani dalla terra, ha poca importanza. Sia uno che l’altro motivo spingono a compiere un’azione di movimento verso l’innanzi. Seduta alla mia scrivania ho di fronte il Monte Santa Croce. Le Dolomiti sono roccia pura, un taglio in orizzontale, pietrificato tra il colore verde del bosco e l’azzurro del cielo. Lo sguardo deve andare molto lontano, il mio è allenato e sa dove mettere a fuoco per scorgere appena appena la punta di un campanile. La dlijia da La Crusc, il santuario di Santa Croce, consacrato nel 1484. Da allora non si sono fermate le processioni e l’afflusso dei pellegrini.
Anche lì, una chiesa indica la santità del luogo e come tale è sentito e considerato inviolabile.
In questo tempo di silenziosa attesa verso una possibile guarigione della quotidianità, sto rileggendo un libro dell’amico Diego Leoni, scrittore e storico di Rovereto: si occupa della vita di uomini e donne del Novecento, della loro storia, soprattutto durante le due Guerre mondiali. Il libro ha un titolo significativo, La guerra verticale (Einaudi 2015), raccoglie un racconto della grande guerra sulle montagne, dove per tre anni si confrontarono i due eserciti italiano e austro-ungarico, lasciando alla storia un’ecatombe di uomini, di animali e di piante. Scrive Diego: «un vero e proprio Sacrificio alla Montagna». Il libro ospita un numero importante di lettere scritte dai soldati. «Un fervido laboratorio di scrittura, colta e popolare», che portò i giovani ufficiali alpini che stavano lassù in alto, a una «mistica della Montagna e dell’Alpino, ad un culto della Terra Madre».
In quell’inferno tra ghiaccio e roccia, che lasciava gli uomini esterrefatti e smarriti per quanto avevano visto e vissuto, rimanevano le lettere inviate a casa, alle madri, alle mogli e ai fratelli. Molte di queste spedite pochi giorni prima della morte di chi le aveva scritte.
Propongo in questa pagina l’immagine di un santuario diverso, un altro santuario, dove non sono avvenuti i miracoli, e la presenza della divinità si intrecciava alle dita in preghiera per paura e sconforto. L’ufficiale volontario Enzo Valentini scriveva a sua madre il 9 agosto 1915 queste parole, lasciando alla sopportazione uno spazio poetico di venerazione per i paesaggi dolomitici: «Sentivo dietro di me vivere di intensissima vita la Terra Madre, e in lei tutte le madri mortali, e soprattutto la mia, tu, nell’augusta presenza della montagna gigantesca che si trova dietro di me, serena nella luce diffusa del sole; mai come oggi la terra mi si è rivelata così chiaramente come la Madre eterna, e mai la montagna mi è apparsa tanto sacra».
Sapersi inferiori: succede all’essere umano di sentirsi piccolo in mezzo alla natura, perfino in mezzo agli orrori della guerra. Provo a immaginare il volontario Enzo Valentini, seduto su terra di nessuno, pochi giorni prima di dover morire, scrive alla madre e la chiama Mammina, intorno la conta dei morti senza fine.
Sempre ricordare i vivi che scesero, mai dimenticare i morti che rimasero.
Quando cade il corpo di una vita sacrificata, quel terreno che lo accoglie disteso rimarrà un luogo santo per sempre.