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L’inizio, la fine, il fango meraviglioso della creazione

​di Guido Oldani
Non ha usato l’oro e la luce per compiere l’uomo, ma la stessa fanghiglia che insozza il lucido delle nostre scarpe. È in questo manuale sudore che va cercata l’immagine e la divina somiglianza. Ecco il corpo nostro, frutto della callosità amorevole di un Dio operaio che, dopo averci realizzati, per ciò stesso si dovrà sciacquare le mani. L’azienda divina si è adoperata, la fiamma ossidrica del suo alito ha posto a saldamento la nostra corporeità. Non è un muro che si fabbrica da solo, né una bicicletta che vada a spasso senza piedi che vi pedalino. Qui il black & decker del soffio divino ci rende animati dall’anima. Ognuno la sua, infiniti eterni che si situano nell’interminabile logistica dell’eternità.
I corpi neonati sono quasi indistinguibili secondo il genere e al tramonto del vivere, poco prima di essere imbucati come lettere da spedire verso l’assoluto, anche lì il genere sembra non far più testo. Corpi anziani nei corridoi quasi monastici delle case di riposo, con le loro tute, un po’ a sacco e monocolore, coi loro capelli corti come quand’erano ragazzini, diventano oramai monotipici. Il nonno e la nonna sono la stessa cosa.
I corpi sono diventati il packaging dell’anima, indistinguibili, unificati, sorprendentemente modesti e meravigliosi, perché il respiro non è il segreto della vita anagrafica ma soltanto l’esito e il preludio alla inarrestabile espansione del tempo nei tempi. Le ossa sono bianche come la luna, la carne sembra la polpa del sole che, unendo la notte al dì, fanno e costituiscono il giorno corporale. In ogni ospedale c’è la sala dei bambolotti neonati, calda e dai colori spiccati. E una stanza grigia, fredda, dove i corpi raggiungono la loro definitiva immobilità sacrale. Negli altri reparti, vi sono pance gonfie di gravidanza, ingessatura degli arti. Altrove si conteggiano i visceri, le loro circonvoluzioni, le loro anse che paiono i tornanti di ascesa alle belle montagne del mondo. Qui si scala il dolore, con la piccozza della speranza, nella cordata della solidarietà umana possibile. In altro sito, i cuori come pacifici piccioni viaggiatori, stanno nella gabbia del torace, in attesa di becchime, di conforto e di protesi inverosimili. Il loro canto è come un basso continuo; a volte s’ingegna in un jazz creativo di sola percussione. Quasi un lento applauso della vita che ringrazia la Vita. È un’orazione incessante quella che avviene in questa gabbia all’oscuro, perché di luce non ha affatto bisogno. La divinità le fa compagnia, lì dentro, con la sua lanterna di Diogene, che viene data in dotazione ai Franceschi che ce n’è ben di più di quanti se ne possa anche ottimisticamente immaginare. O cantare o portare la croce. Che vuol dire o stare nel solo tempo biografico o essere in quello che non si finirà mai di sgomitolare.
Eppure tutto parte da questa Cape Canaveral alla buona che è la nostra bislacca corporeità umana. È di tale fascino il corpo, anche quando è morto, lasciando a chiunque il sospetto della non definitività, che persino uno come Heidegger, il maggior tribolante filosofo del Novecento, dall’alto della sua incredulità chiede che il proprio nipote, prete cattolico, celebri una messa al suo povero e grandioso filosofico funerale. Sono le femmine e i maschi corporali, attraverso l’artigianato dell’amore, a dare luogo alla rimanente progressione dei popoli. Nelle loro pietre focaie dell’inizio, si devono indagare le radici del senso della bellezza universale. È in una tale disadorna mancanza di profumi che l’essere albeggia la propria sontuosità. Allora l’ossigeno si tuffa nel sangue, che farà ballare il cuore e io stesso comprendo d’essere, nel tempo d’un gong, questi miei strani cento chili di assolutamente debordante infinito.