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La morte è l’orizzonte in cui tutto accade

​Ferdinando Camon


Èstato detto: l’uomo parla sempre della propria morte. Anche quando dice: voglio leggere un libro. Oppure: voglio vedere Parigi. Una variante di quel detto è questa: qualunque cosa faccia, l’uomo la fa sempre per vincere la propria morte. Anche quando fa un ponte, o una guerra, o un libro. O una canzone. O un figlio. Quando sentite una canzone di Dalla o De André, la vostra domanda: «È bella o brutta?», significa in sostanza: «L’autore è vivo o morto?» Per me, Nati due volte è un grande libro, Pontiggia è vivo. Come Notturno Indiano di Tabucchi. Se vogliamo sapere cosa pensano Pontiggia e Tabucchi di nostra sorella morte, come adesso camminano a fianco di lei, basta che leggiamo i loro libri. Li riprendo ed è come se mi unissi alla loro camminata, faccio cento metri con loro e con la loro e mia corporal sorella morte.
Cronaca familiare di Vasco Pratolini è il racconto di una vita, la vita del fratello di Pratolini, in attesa della morte, una lunga lotta perduta in partenza. Ero amico di Vasco, quando andavo a Roma andavo a trovarlo e stavo interi pomeriggi con lui. Era il tempo in cui pubblicavo il libro che sul manoscritto intitolavo Immortalità ma che poi Livio Garzanti intitolò Un altare per la madre. Pratolini disse che lui aveva raccontato la morte come punto d’arrivo, si arriva lì e lì tutto finisce, mentre io raccontavo la morte come punto di partenza: Cronaca familiare finisce con la morte del fratello, Immortalità comincia col funerale della madre. Sì, c’è questo senso di battaglia finale nel racconto di Pratolini, Pratolini era comunista e per un comunista la morte è la conclusione del nostro essere, lì noi finiamo e oltre quella fine non va niente di noi, ma nell’ultima riga di Cronaca familiare Vasco si rivolge al fratello appena morto e gli dice: «Se così è, la tua anima splende nel più alto dei cieli».
C’è dunque uno splendore oltre il buio. Era questo splendore che m’attirava in Pratolini, noi parlavamo di colleghi scrittori e di calcio e della città di Roma, non parlavamo del mio cattolicesimo e del suo marxismo, parlare così ruvidamente uno dell’intimità dell’altro ci sarebbe parso un’indelicatezza, ma sentivamo che a richiamarci era questo bisogno, questa certezza che noi non saremmo morti interamente, non appartenevamo a questa terra e la vita non esauriva il nostro essere. Non siamo corpi, siamo simboli. La morte di Ivan Il’ic  è un racconto terribile, anzi insopportabile. È la discesa verso la morte, dentro la morte, centimetro per centimetro, fino allo strozzamento finale. Leggere quel libro è come morire. Lo è per noi, ma credo lo fosse anche per Tolstoj. Gli studiosi di Tolstoj dicono che il manoscritto è straordinariamente scorretto, con errori banali, come se l’autore non lo avesse più ripreso in mano. Mi spiego questa trascuratezza col fatto che l’autore non lo ha più riletto, dopo essere morto scrivendolo non se l’è sentita di ri-morire rileggendolo.
Sì, dev’essere andata così. Ivan Il’ic muore borghesemente, non c’è una luce che splende oltre il tunnel. Io ho avuto il dono di nascere e crescere dentro questa luce, non è un merito ma un dono, la persona che muore nel mio racconto (è già morta quando il racconto comincia) suscita nella famiglia un dolore così completo che la famiglia non può accettarlo, ha bisogno di liberarsene. E la civiltà contadina, la civiltà cristiana originaria, ma potrei dire la civiltà tout court, le insegna che per salvare una persona dalla morte bisogna incarnarla in un simbolo, consacrarlo, offrirlo alla comunità. Jung, ne Il simbolismo della messa, dice che queste sono le fasi di tutti i riti di salvezza, greci, romani, tribali, precolombiani, e naturalmente cristiani: nella messa cattolica si chiamano consecratio, oblatio, communio… Senza saperlo avevo raccontato un rito di salvezza costruito su queste fasi.
Salvare dalla morte è un bisogno di tutti gli uomini. Per questo il libro è stato tradotto anche in Paesi comunisti e islamici. Non è merito mio, non è un libro che ho scritto io. L’ha scritto la civiltà cristiana-contadina in cui sono nato. Ho soggezione verso questo libro, come una cosa che sta al di sopra di me. Quando partirò per l’ultimo viaggio, vorrei che mi fosse messo fra le mani, come un lasciapassare.