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L'avventura del Codice Atlantico

​Gianfranco Ravasi


Amava definirsi «omo sanza littere» ed effettivamente doveva risultare un po’ strana la sua sostanziale ignoranza del latino: sarebbe come uno scienziato che oggi non riesca a capire e a parlare inglese, tagliato fuori dai circuiti internazionali di ricerca. Eppure proprio questa libertà dall’accademia permetteva a Leonardo da Vinci di far esplodere senza remore la sua unica e inesauribile genialità che lo faceva eccellere come pittore, matematico, ingegnere, scrittore, anatomista, fisico, biologo, geologo e altro ancora, smentendo la convinzione secondo la quale l’eclettico è solo un ripetitivo. La sua presenza nella cultura è stata per secoli ininterrotta, ma in questi ultimi tempi ha assunto sempre più connotazioni quasi mitiche e sarebbe interessante interrogarsi sulle ragioni di questo successo.
In occasione del quinto centenario della sua morte avvenuta venerdì 2 maggio 1519 a 67 anni nel castello di Cloux, oggi Clos Lucé, ad Amboise, sulla riva sinistra della Loira nella Francia centrale, vorrei rimandare a un suo testo fondamentale, vera e propria autobiografia scientifica, quel Codice Atlantico (così denominato a causa del suo formato ad “atlante”) che per molti anni ho custodito nella mia funzione di Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Il codice si compone ora di 1.119 fogli che conservano 1.286 carte originarie con 1.750 disegni, un patrimonio immenso se comparato alle poche carte (18) del Codice Leicester-Hammer, entrato nelle cronache anni fa in occasione dell’acquisto da parte del fondatore di Microsoft, Bill Gates, per una cifra astronomica.
Alle sue spalle questo straordinario documento della ricerca di Leonardo – che è stato alla base di un mio incontro personale ideale – ha una storia tormentata e talora drammatica che ora non è possibile ricostruire, data la sua complessità e i vari colpi di scena, a partire dalla morte di Leonardo. Queste vicende fecero sì che l’Atlantico approdasse alla fine al conte milanese Galeazzo Arconati che il 22 gennaio 1637 lo donò, con altri testi vinciani, alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Là riposò in una specie di urna, ancor oggi conservata, per un secolo e mezzo. Nel 1796 Napoleone entrava in Milano e ordinava il trasferimento a Parigi – con l’alibi della tutela dei beni culturali più preziosi – proprio di quel codice e degli altri manoscritti vinciani assieme ad altri tesori dell’Ambrosiana.
Nella capitale francese l’Atlantico fu indirizzato alla Biblioteca Nazionale, mentre gli altri dodici codici ambrosiani di Leonardo vennero assegnati all’Istituto di Francia. Caduto Napoleone, l’Austria, ritornata a Milano, per reclamarne la restituzione inviò il suo commissario, il barone di Ottenfels, che si distinse per ottusità e inettitudine. Si pensi che fu sul punto di lasciare a Parigi il Codice Atlantico perché, osservando la strana grafia inversa di Leonardo, l’aveva scambiato per un testo cinese!
Per fortuna là erano presenti anche i commissari del papa (lo scultore Antonio Canova) e del Granduca di Toscana: essi s’accorsero della realtà di quel codice che così poté ritornare all’Ambrosiana, dopo diciannove anni di esilio, anche se il barone austriaco “dimenticò” per sempre gli altri dodici manoscritti leonardeschi alloggiati presso l’Istituto di Francia. Da allora l’Atlantico riposa nell’istituzione fondata nel 1603 da Federico Borromeo. In verità, recentemente ha subìto un altro intervento molto forte con la “sfogliazione” delle singole pagine dai dodici volumi in cui era stato ricomposto negli anni Sessanta del secolo scorso.
Il codice è una specie di caleidoscopio delle curiosità e delle competenze leonardesche. Come scriveva uno dei maggiori studiosi leonardeschi, Pietro C. Marani, esso «costituisce un punto di riferimento imprescindibile per ogni studio su Leonardo, dato che le sue pagine contengono disegni e annotazioni che si dispongono su quasi tutta l’estensione della sua carriera artistica, letteraria, scientifica e tecnologica, databili a partire dal primo periodo fiorentino per giungere fino agli anni estremi del suo soggiorno in Francia».
Si va dall’ingegneria militare con catapulte, bombarde, artiglieria varia, congegni di difesa e persino un acciarino automatico per dar fuoco alle polveri fino a indovinelli, favole, strutture per feste e disegni allegorici. Si passa dalla nautica con navi speronatrici e palombari fino a varie macchine idrauliche, dai disegni architettonici per il tiburio del Duomo di Milano a riflessioni più teoriche di anatomia, pittura e scienza. Intenso è lo studio che Leonardo conduce sull’acqua, sulle reti dei canali e sulle vie fluviali come tramite per le comunicazioni commerciali.
Egli è attratto dai temi della prospettiva e della luce, del peso e della misura, dalla geometria euclidea e dalle questioni aritmetiche, dalla quadratura delle superfici curve, dal concetto di limite, dall’energia e soprattutto dalla macchina per volare, modellata sul volo degli uccelli. Ma non disdegna anche di abbozzare progetti per la casa di un ricco milanese, per un giardino principesco, per un monumento funebre, per una diga sull’Adda e altro ancora. Pur essendo, come si diceva, «sanza littere», egli si batte per raffinare anche la sua lingua e penetrare in quella latina a lui ignota. Come scriveva un altro studioso di Leonardo, Augusto Marinoni, «il Codice Atlantico contiene le sue amare e insieme orgogliose confessioni che rivelano la piena coscienza delle proprie virtù e dei limiti da infrangere».