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L'arte dello sguardo

​Io guardo: ciò che viene visto, come ben sapevano gli impressionisti, varia di attimo in attimo.
Panta rei, mai due volte quel che vediamo è la stessa cosa, perché il fiume del tempo e della luminosità che avvolge le cose è sempre un altro e un altro ancora. Ma c’è di peggio, o di meglio: anche chi osserva è sempre diverso di momento in momento. Basta rileggere una poesia a distanza di qualche ora per renderci conto del nostro cambiamento. Noi siamo sempre un interlocutore diverso, uno, nessuno, centomila. Ora, realizzare il perfetto rapporto tra il guardante e il guardato, è come riuscire a far partire verso l’alto due colpi d’arma da fuoco con due armi contemporaneamente, e sperare che le loro rispettive traiettorie si incrocino e che i due proiettili vi giungano nello stesso istante. O, ancora, è come se due angeli in volo libero si incrociassero e, presisi sottobraccio, continuassero a volare insieme, remando ognuno, sincronicamente, con l’ala periferica. Perché un guardare sia vero, occorre che accada un miracolo. Questo è il prodigio che riesce a ottenere l’artista, quando sta di vedetta sul mondo. Tutto questo si mescola, nella betoniera della mente, con la storia del mondo e con il pensiero del singolo. La sintesi che ne lievita è forse l’opera d’arte o quello che intuisco possa essere. È il momento in cui si esprime una nuova lingua, una nuova forma, figlie di una lotta che è paragonabile a quella di Giacobbe con l’angelo. Qui incomincia lo sguardo di chi arriva estraneo e inconsapevole di quanto è accaduto fino ad ora.

Certo che l’opera dovrebbe parlare, lo sapeva bene Michelangelo, quando infieriva sul suo Mosè mutacico. L’opera ha una sua sacralissima malvagità. Similmente alle sirene di Ulisse, ci convoca e noi possiamo difenderci da lei aderendo con le parole giuste, come se si stesse rispondendo all’enigma della sfinge. Allora le nostre parole lanciano verso l’opera bombe molotov di intelligenza, trapanature di curiosità, tentativi di saccheggio, infilando frasi come cavalli di Troia,  approntando arieti di interrogativi. Le nostre frasi sono martello e scalpello che agiscono sull’opera, tenuta ferma sull’incudine dell’anima, la nostra. Allora le espressioni di scrittura o verbali di cui ci dotiamo diventano il sismografo per percepire la profonda telluricità dell’imperturbabile manufatto artistico. Come nelle cave di marmo di Carrara facciamo esplodere mine di interrogativi, di sentimento e di emozione. Poi, quando cala la notte su questo nostro guardare l’artistico frutto dello sguardo, abbiamo come concluso una splendida partita di pugilato. Ci è rimasto il debito di ossigeno e la stanchezza è quella del vincitore che è stato felicemente sconfitto. È il momento dell’ultima parola che spetta sempre alla parola stessa.

di Guido Oldani