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Il tempo verticale che crea lo spazio dell'incontro

​Maria Antonietta Crippa


Tra le più abusate e anche tra le più maltrattate, la parola “bellezza” per luoghi di vita religiosa indica tuttora un’esperienza intensa ma, va subito precisato, quasi furtivamente vissuta, se non sottaciuta. Eppure, lo sappiamo, essa ci è indispensabile per esprimere il fondo misterioso del vivere, nostro e del mondo. È parola che fa segno a qualcosa che, in noi e fuori di noi, emerge con evidenza lampante, senza scarti rispetto alla diretta percezione della fisica materialità della realtà intera, dell’oggettività di cose e contesti e dell’alterità dei volti degli uomini con i quali siamo in relazione. Non ne abbiamo un’altra, infatti, per dire l’esattezza di questi legami. In essi ciò che percepiamo, nella vibrazione di sensibilità e spiritualità interiori, e ciò che ha consistenza fisica di realtà, esterna a noi, costituiscono un tutt’uno rispondente a dimensioni distinte, ma non giustapposte, della condizione umana.
Li unisce una linea verticale che mette in diretta comunicazione cielo e terra, umano e divino: è la verticale del tempo che, in un istante di pienezza, provoca la libertà. Quest’ultima può decidere di fare dell’apertura all’infinito la costante della condizione umana e la scala della sua salita al cielo. Essa però può anche rinchiuderne l’energia di vita, scaturita nell’attimo di luce, nel perimetro di una folgorazione che non procede oltre sé stessa. Gli esiti delle due opzioni risultano molto diversi. Nella prima i luoghi dell’infinito – segni, oggetti, spazi, paesaggi sacri e santi – portano pluriforme testimonianza: della religiosa creatività degli uomini che li attuano, del legame tra visibile e invisibile di cui vivono, dell’elevazione spirituale che esigono, della storia in cui si inscrivono. Hanno una durata che sfocia in tradizione di popoli. Nella seconda il valore d’arte, essenziale anche nella prima ma in questa riferimento unico, diffida di ogni contaminazione e di ogni ripetizione; nel suo ambito il nuovo non è mai anche antico.
 Sto sondando, per cenni, l’ambito di un fenomeno che sta al cuore delle contraddizioni culturali che si agitano nell’attuale pratica e comprensione dell’arte, in tutte le sue forme, comprese quelle cristiane, siano esse ereditate o in fieri. Indizio significativo delle difficoltà in cui ci si dibatte mi pare il tendenziale congedo del loro mondo dall’universo evocato da due parole: “paradiso” e “popolo”. La prima, rinchiusa nell’orizzonte di un’estetica elitaria, viene svuotata del suo destino alla visibilità della gloria divina. La seconda, sostituita dall’idea di massificazione omologante, non orienta più l’attenzione verso l’alleanza fedele di Dio che ci fa popolo.
Il contrasto tra queste propensioni e i richiami potenti dei luoghi dell’infinito che costellano città e territori è segno stridente di un’intima e debilitante lacerazione. Tuttavia qualcosa di nuovo, in controtendenza con questa deriva, va prendendo consistenza negli ultimi decenni. Da una parte, molti studi hanno messo a fuoco l’iridescente religiosità di lunga tradizione in molti popoli, dando spessore di concretezza anche contemporanea al volto dell’uomo religioso. Dall’altra, papa Francesco, erede del rispetto per il legame tra religioni e libertà personale maturato con il Concilio Vaticano II, ha ridato grande importanza alla devozione dei popoli, per i loro segni e i loro luoghi sacri e santi, a partire dalla manifestazione della propria. Lo ha fatto sfidando con gentilezza la sua marginalizzazione nell’attuale mondo multiculturale, oltre che sempre più secolarizzato, dell’occidente. Ha così fatto emergere, ridestandola, una religiosità latente in tutti e insopprimibile, come avevano detto, tra altri studiosi, Mircea Eliade e Julien Ries. Ricordando all’Europa (Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014) la sua storia «fatta dal continuo incontro tra cielo e terra», papa Francesco le ha riproposto la dimensione verticale del tempo, quell’intersezione – come disse il poeta e saggista Thomas Stearn Eliot – del “senza tempo con il tempo” che il cristiano conosce da sempre, in quanto creatura generata, non da ragione etica o da grandiosi principi, ma dall’evento dell’incontro «con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».