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Il rosario delle crudeltà redento dall’arte

​Guido Oldani


Il dolore che più portiamo nel sorriso della memoria quotidiana è quello della cefalea metropolitana, subito frantumato da una pillola ben pubblicizzata, o ancora la schiena del nonno coadiuvata da una poltrona capace di tutte le acrobazie terapeutiche. Questo è il dolorare di copertina che ci restituisce la pagina pubblicitaria televisiva. Fuori da questo carnevale illustrativo, esiste però il dolore vero, quello inseparabile dalla vita, della quale costituisce fondamento: non c’è vita senza dolore e viceversa. È nell’infanzia che la nozione nominata prende il suo sviluppo. Ho nella mente la morte della zia Carlotta, che rantolante celebra per me, bambino, la liturgia del dolore, che sfocia nell’assoluto della morte, anche sorella. Una liturgia notturna nella nottata del 13 dicembre, che corrisponde al giorno di santa Lucia. La penombra era la sua giusta luce e il mistero il suo necessario significato.
Altre cose mi rimbalzano in mente, lontanissime e crudeli. Ho visto un cane trascinato a fondo da un masso legato al collo, nel fiume Lambro. E una mucca alzata con le catene dell’argano, poi con un coltellaccio le tagliarono la carotide e lei aveva gli occhi stralunati. Mi rendo conto che si avvia un rosario dei dolori, una collezione di effigi, così come l’avaro colleziona il mucchio criminoso delle banconote. Quando a mio padre segarono la gamba come al Pietro Marroncelli di Le mie prigioni, io cercavo vari espedienti per dimostrargli che non era successo nulla di irreparabile. Ora ho chiarissima la totale stupidità delle mie povere buone intenzioni. Invece il medico credente, che in maniera illegale dava la morfina per contenere la mostruosità del dolore dei suoi pazienti, contribuì a farmi mutare totalmente la mia opinione sulle leggi in qualunque parte esse operino nel mondo. E penso all’Africa, un intero continente che corrisponde a un campo di sterminio efficientissimo, che fa morire per il dolore delle malattie e della fame. Ma nessuno ha l’onestà di definire il Continente Nero come il più grande campo di concentramento, tuttora operantissimo nel mondo. Penso al dolore dei pesci che gridano il loro soffrire boccheggiando negli acquari, richiedenti un gentile biglietto d’ingresso. Annoto la sofferenza psichiatrica: pare che il soffrire schizofrenico sia fra i più innominabili, così come il grido di Munch che si ascolta vedendolo. Se penso che il pesce viene sollevato con l’amo, proprio attraverso quella bocca che è costretta a tacere, mi verrebbe da gridare in sua vece.
Ma ci sono anche i dolori pietrificati e pietrificanti. Ho visto uomini seduti sull’asfalto della strada, guardare senza vedere, udire senza ascoltare. Il dolore inflitto dalla disumanità metropolitana li pietrifica ma rende al contempo tutti i passanti, variamente trasportati, una congerie di marionette senz’arte né parte, né tantomeno anima. Ho veduto l’operazione di scalva delle piante. Nel mese di febbraio, il più freddo dell’anno, quando la linfa degli alberi è praticamente ferma, allora i colpi implacabili di scure o di sega a nastro amputano nel silenzio del gelo e del vento invernale. Il dolore e il suo radicamento in noi e il problema che ci porta dentro, credo non se ne vada mai.
Tutte le sere, prima di un certo telegiornale, mi mostrano un bambino che muore soffocato dal liquido polmonitico che ha nel respiro. Chiedono aiuto per gli antibiotici ma io non so se cenare o buttarmi con la testa contro il muro che mi sta davanti. Persino la carta accartocciata nel cestino evoca dolore, o assistere a una lamiera che viene tagliata in due da una cesoia implacabile sconvolge. Persino negli oggetti si manifesta il doloramento che è proprio della natura umana e della natura tout court. Come esprimerlo il tema del soffrire nel nostro vivere d’ogni giorno? Penso alle Via crucis dei poeti meno eleganti, ricche di verità. Ho nella memoria fortissima e implacabile l’immagine dei battellieri sulla strada alzaia del Don che trascinano le loro imbarcazioni con le corde seghettanti le loro spalle. Ho nell’orecchio il canto serale intorno al fuoco dei neri sul Mississippi, che scandiscono i loro spiritual di fede, calore e dolore. Ah caro blues! Ah la scossa della sedia elettrica del jazz. Redimono con l’invenzione più divina il dolore umano, che vive non solo in chiave di fa e in quella di sol.