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Il convitato silenzioso

Una domenica sera. C’è la nonna a cena da noi. La tavola è apparecchiata con più cura, con una tovaglia bella, e perfino con i bicchieri tutti uguali, non presi a caso dalla credenza. In questa sera di inverno ci siamo tutti, mio marito, sua madre, io, e i tre figli ormai attorno ai vent’anni. A tavola nella grande cucina, sotto al massiccio crocifisso di legno che ci fu regalato per le nozze, quasi venticinque anni fa (venticinque anni fa, mi dico, incredula, e grata che siamo ancora qui, noi due, insieme). Poi guardo i ragazzi. Il maggiore, prossimo alla laurea, ha una barba da garibaldino. È silenzioso, in casa, e sempre chiuso a studiare nella sua stanza. Lo osservo di sottecchi, allungando le mie antenne materne. Esamino lo sguardo, e l’appetito, che non manca. Sì, mi pare stia bene. Con il secondo non c’è bisogno di fare domande: sorridente, loquace, quando c’è lui a tavola è come se ci fosse il sole. Accanto a me c’è la piccola, diciotto anni, delicata come un fiore. Mangia adagio, a piccoli bocconi, mentre i suoi fratelli divorano ogni cosa. Anche mio marito mangia golosamente, e troppo: gli lancio uno sguardo freddo mentre si serve un secondo piatto di spaghetti, e intanto getto un’occhiataccia anche al figlio grande, che non smette di leggere sul cellulare. Poi, c’è la nonna, coi suoi ottant’anni, fragile eppure attenta. Mi accorgo che scruta le facce dei nipoti con il mio stesso sguardo materno. Essere nonni, mi dico con speranza, deve essere quasi come essere madre di nuovo. Mangiamo e chiacchieriamo, alzando la voce perché la nonna senta.
Ma stasera io vedo questa nostra tavola come dall’esterno, come se mi affacciassi alla finestra, da fuori. E mi piace il nostro quieto discorrere attorno al tavolo illuminato, nella grande vecchia cucina che ancora odora di sugo e di arrosto. È così carnale e così dolce, lo stare insieme di una famiglia attorno alla tavola, mentre, sotto, il cane aspetta fiducioso un boccone. Fuori stasera diluvia, e fa freddo. Che meraviglia, penso, questa nostra casa calda, questo cibo di cui non manchiamo mai, questo nostro volerci bene. Bisognerebbe, mi dico fra il rumore delle posate, ogni sera a tavola partire da una gratitudine: per il fatto di essere ancora una volta insieme, noi e i figli, per il fatto che la nostra barca comunque va. Getto uno sguardo al crocifisso sul muro, proprio davanti a me. Porta i ramoscelli d’ulivo delle Palme; e sotto di lui, in colonna, le tacche che segnavano la statura dei figli bambini: dagli ottanta centimetri, fino a oltre centottanta. Non ho mai voluto cancellarle. Devono stare qui, accanto alla tavola, sotto al crocefisso. Perché in realtà mi pare, questa sera, di intuire che c’è un settimo convitato, qui a tavola con noi. Mi pare che Lui sia qui, sulle nostre sedie dell’Ikea, silenzioso eppure partecipe di tutto. Perché non ce l’avremmo fatta noi due da soli, fragili come entrambi siamo, a fare una famiglia come questa, e a conservarla, con fatica, unita. Guardo di nuovo i figli, sani, intelligenti, vivi, e mi chiedo cosa abbiamo fatto per meritarli. Niente, mi rispondo: semplicemente, sono stati un dono. E un dono di grazia è stato, noi due, restare sempre insieme, anche nei momenti più duri. Sì, penso, ci deve essere proprio, quell’ospite invisibile, stasera. Il settimo convitato seduto a tavola, in mezzo a noi.

di Marina Corradi