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Ermanno Olmi e l’infinito quotidiano

di Ermanno Olmi

Penso all’uomo che s’interroga, alla frontiera tra il finito e l’infinito e vedo un uomo di scienza che sorride. Perché nella sua esplorazione dell’infinitamente grande o dell’infinitamente piccolo ha raggiunto il suo limite estremo. Pur con tutta la potenza del suo pensiero, con l’estensione la profondità del suo sapere (che noi, uomini comuni, fatichiamo anche solo a immaginare), il grande scienziato posto dinanzi all’abisso cosmico si ferma. Ma non è uno sconfitto. Egli non perde la capacità d’interrogarsi, stupirsi, compiacersi del mistero che sta oltre quel limite. Perciò sorride: la sua non è una negazione della scienza, anzi, è un’affermazione. Questo tipo di scienziato mi restituisce il cammino dell’uomo comune e della sua perenne condizione, richiamandomi alla mente la figura del vecchio contadino che indaga nella zolla i misteri della rigenerazione della vita; che ha imparato modi, tempi, regole della natura, che rispetta perché conosce ed è consapevole del suo limite. E tuttavia, anche lui sa bene che c’è un di più, un oltre, un mistero che lo stupisce, lo compiace, lo interroga incessantemente e per questo lo fa sentire vivo. Il grande scienziato e il modesto contadino hanno tutti e due acquisito la percezione dell’infinito. E non parlo di un trascendente astratto, bensì dell’immanente infinito: mondo fisico, palpabile. Cosmo, materia. Il misurabile e il conoscibile, anche se irraggiungibili dalla mano e dalla mente dell’uomo. Sopra le nostre teste ci sono stelle e mondi in quantità inimmaginabili e distanze incommensurabili. E la nostra esistenza è in relazione con tutto ciò, coi diversi ordini dell’infinito, con tutto quello di cui abbiamo la percezione, ma ancora di più (molto di più) con tutto quello che è oltre il limite di ogni possibile conoscenza. Loro – lo scienziato che indaga e il contadino che contempla – lo sanno benissimo. E sorridono.
Noi, invece, forse non lo sappiamo più o lo abbiamo dimenticato. Imprigionati nella gabbia di una quotidianità tecnologica, dove caldo e freddo, buio e luce non dipendono dalla natura ma da un nostro comando: pulsanti, display, generatori, computer. Nulla di male, se non fosse che il grembo tecnologico, offrendoci l’illusione di un’esistenza comoda e “sicura” al riparo da ogni disagio e rischio, alla fine ci separa da ogni responsabilità verso noi stessi, gli altri, la terra e l’infinito. Ci si disabitua alla curiosità, all’interrogazione e così si perde l’opportunità della contemplazione e dello stupore. Perdiamo di vista l’immanente, a portata di mano, e ci alieniamo il trascendente.
Nel grembo delle sicurezze, non si vive in relazione con il mondo. Non si nasce a noi stessi e agli altri. Ci neghiamo la possibilità di essere e diventare uomini. La nostra ansia di certezze, garanzie, assicurazioni ci riduce a cadaveri viventi.
Il mio sentore di infinito non è frutto di compiacimento intellettuale. Ho vissuto il binomio della civiltà industriale e di quella contadina. Mio padre era ferroviere e sono cresciuto alla Bovisa, nella periferia di Milano. Ma i nonni materni erano della Bassa Bergamasca, e in quelle campagne ho passato le estati della mia fanciullezza. E soprattutto lì, in quel mondo povero e umile, fra chi vive in povertà e semplicità, ho percepito l’idea di un infinito ritrovato ogni giorno nella realtà della zolla, delle stagioni, del sole e della pioggia. Ci avviciniamo al Giubileo, inizio di un nuovo millennio. Come un compleanno personale si fa occasione di bilanci, sarebbe bello che anche il Giubileo diventasse come un grande compleanno collettivo: un tempo speciale per domande sempre nuove e che non possiamo eludere se amiamo la vita. Torniamo pure a farci interrogare dal trascendente. Ma per evitare le scappatoie di certe astrazioni, torniamo prima di tutto a farci provocare dalle meraviglie dell’immanente, e a convertire la gioia delle nostre scoperte in un dono agli altri. Comunicazione, comunione: queste due parole non condividono una radice comune? In un mondo in cui tutti si affannano per «comunicare» senza aver niente da dire, la Chiesa può ancora affermare la sua gioia di aver ricevuto il dono della Parola di Vita? Sarebbe il più bel “monumento” innalzato al Giubileo.​