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Conviviali perché nessuno basta a se stesso

​Pranzare o cenare insieme non è la stessa cosa che mangiare contemporaneamente. Se questa differenza sbiadisce, la convivialità è persa. E guardate che non c’è altro posto in cui può andare. Sarà persa, e basta. Ma c’è un’altra soglia a rischio. È quella in cui il piacere del cibo e l’apprezzamento della sua preparazione, che ci arrivano come un dono aggiunto della sua condivisione, si armonizzano con il piacere della convivialità che autorizza, anche fra estranei, a commentare la vita in termini reciprocamente ospitali, confidenziali, gentili.
La cultura del nutrimento esibisce oggi un grado di sofisticazione e di estetizzazione, che tende a sequestrare tutto il valore della convivialità, incoraggiando a coltivare la nostra competenza sull’arte del cibo, svuotando quella del convivio. Stare insieme per mangiare o mangiare per stare insieme? Non sarebbe un’alternativa, ma lo sta diventando. Le trasmissioni dedicate alla preparazione del cibo si moltiplicano, con grande successo a quanto pare. L’orizzonte della convivialità non ne riceve il minimo apporto.
 
Esso potrebbe tuttavia ricevere il suo compenso (accettiamo pure la divisione dei compiti) nell’esemplarità di esperienze di conversazione che non rimangano inchiodate alla bassa cucina della politica e del gossip. Non ce ne sono quasi più, di conversazioni che nutrono. Lo standard medio dei cosiddetti talk show impone di rivalutare i proverbiali discorsi del bar sport e della bocciofila. Il piacere della conversazione ci è diventato un oggetto ignoto. Il piacere del cibo si sottrae e ce ne distrae.
I legami famigliari e quelli dell’amicizia dovranno ridiventare intransigenti, su questo punto. Reinsediare e allargare i tempi e gli spazi dell’habitat – ironizzando quanto basta sul bivacco fast food e sulle cene di corporazione che l’hanno sostituita – alla felice alleanza dell’arte della conversazione con il miracolo della convivialità. La convivialità trasforma il cibo che ci passiamo affettuosamente l’un l’altro nel simbolo di un nutrimento reciproco. Fa riaffiorare in noi il gesto con il quale siamo stati accolti nella vita. E fa rivivere il desiderio di trattenerci in essa, conquistandoci l’ospitalità dell’amore.
 
Il nutrimento è il grado zero di quella promessa, la sua radice irrevocabile: ma contiene molto altro che vi deve essere coltivato. La cultura della convivialità restituisce al simbolo del nutrimento il suo contesto più proprio, che è quello dell’umanità ospitale, senza il quale nessuno viene al mondo e nessuno ci può rimanere. La convivialità rafforza anche il giusto sentimento della dipendenza reciproca, che siamo fatalmente tentati di rimuovere. Ma nello stesso tempo, ci riconcilia con il fatto che, non appena prendiamo coscienza di non bastare a noi stessi, riceviamo doni insostituibili di fraternità: e siamo messi in grado di farne a nostra volta. La convivialità accende l’esperienza – altrimenti incredibile – di un legame al quale non possiamo sottrarci, come il pane quotidiano. E la trasforma in un’esperienza di libertà alla quale non potremmo rinunciare, senza perdere l’anima.
 
Il legame con il Signore, non per caso fu affidato al contesto della Cena con gli amici: che grazie al miracolo del pane e del vino, non dovranno sentire nemmeno la morte come una perdita del legame. Consumare la Cena con Lui per imbandire la propria vita come un nutrimento e rimanere gli uni per gli altri come un nutrimento: questo il suo comandamento. Ripetere questa convivialità, scambiando sempre di nuovo parole con Lui, crocifisso e risorto, è il modo per non rendere vano il suo sacrificio e custodire il sacramento nel quale esso ci nutre per la vita eterna.
 
La convivialità del Signore ci tiene in vita, già ora, letteralmente. Miracolo di Dio nel miracolo dell’umana ospitalità, come a Emmaus. Miracolo che riscatta il tradimento consumato nel segno del mangiare insieme, che fa lampeggiare la sua pura perversione. Perdere la convivialità affamerà il pianeta: del pane come della parola. Tradirla, rende gli uomini spregevoli. Ma se la custodiamo, tutto ridiventa possibile.
 
di Pierangelo Sequeri