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Agostino e Tommaso il cielo in un frammento

​Bruno Forte

Nella cultura occidentale il rapporto fra infinito e finito è stato concepito anzitutto secondo la via classica della bellezza come “forma”. È la strada percorsa da Agostino: alla domanda “Che cosa è bello? e che cosa è la bellezza?” (Confessioni, IV, 13, 20), egli risponde che la ragione del bello è nelle cose stesse che ci appaiono tali. La bellezza non dipende dal gusto del soggetto ma è inscritta nelle cose, possiede una forza oggettiva, precisamente quella dell’infinito che abita l’oggetto. Bello è il Tutto nel frammento, l’Infinito che si affaccia nell’organica “convenientia” delle parti: «Chiediti che cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente altro che l’armonia» (De vera religione 39, 72). Bella è la forma che compone in unità la varietà degli elementi: «Non a caso nel lodare si usa […] il termine formosissimum: che ha la forma in sommo grado» (De vera religione 18, 35). Bello è per via di proporzione di rapporti: i “numeri del cielo” si rendono presenti nell’armonia del­l’oggetto che li rappresenta. Sia che si tratti di una musica, in cui ordinatamente si susseguono i suoni, sia che i rapporti armonici si offrano in una forma figurativa o plastica o letteraria, la bellezza è riproposizione dell’infinito nelle proporzioni del frammento, “minimo infinito”, che attrae, unifica, armonizza.
Come si concilia una tale armonia del bello col male che devasta la terra? Agostino percepisce la forza di questa obiezione, ma non trova risposta. Sarà Tommaso d’Aquino a indicare una via di risposta, colta a partire dalla bellezza come “crocefisso amore”: qui l’Infinito abita nel frammento, nascosto “sub contraria specie” nel volto di Colui, davanti al quale ci si copre la faccia, e che pure è il volto del più bello dei figli degli uomini (cfr Is 53,3 e Sal 44,3). Il Verbo si “abbrevia” per noi fino al supremo abbandono della Croce. Scrive Tommaso: «La bellezza ha a che fare con ciò che è proprio del Figlio» (Summa Theologiae I q. 39 a. 8 c). A spiegazione della sua affermazione Tommaso aggiunge che perché ci sia bellezza occorrono tre cose, l’integritas, la proportio e la claritas. Nella bellezza è il tutto che si affaccia, nella proporzione delle parti e nello splendore. Nel Verbo incarnato è l’infinito divino che si rivela, abitando il frammento del tempo e della carne anzitutto nell’armonia, che fa di Lui il più bello dei figli degli uomini, il “bel Pastore” (Gv 10,11). Si riconosce qui la via agostiniana, erede dell’anima greca. Accanto a essa, però, Tommaso segue un’altra strada, quella della claritas, dove non si ferma più sulla totalità che si affaccia nell’armonia delle parti, ma coglie l’irruzione dell’infinito nella fragilità del frammento. È come uno sfolgorio, in cui il Tutto si offre come irradiazione, abisso che si schiude e che trapassa: è il bello come splendore. Questa bellezza Tommaso la vede attuata nell’infinito amore del Figlio incarnato: è il crocifisso amore l’evento della bellezza che salva. È la carità del dono di sé fino alla fine, che dà senso e riscatta la disarmonia del dolore, del male e della morte. La bellezza di cui il mondo ha bisogno e che il Vangelo rivela non è solo armonia pacificante ma è carità ardente, passione di un amore che si fa dono di sé senza ritorno, nel segno doloroso del sacrificio e della morte, secondo la logica del seme che morendo genera la vita. La bellezza può offrirsi come via privilegiata per esperire l’Infinito perché aiuta a distinguere e a collegare il necessario e il contingente, l’Assoluto e il relativo, l’Infinito e il finito.
Lo sfolgorio della bellezza nel Figlio, che si offre per noi, come nel discepolo interiormente trasfigurato dallo Spirito, è irruzione dell’infinito nel finito: dove la carità arriva, lì sfolgora la bellezza che salva, lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce la pace nei discepoli dell’Amato. E questo non nel compimento di una sazietà illusoria ma nel sempre nuovo inizio del desiderio e dell’amore. Come affermava Edgar Allan Poe, «la parola “infinito” non è espressione di un’idea, ma dello sforzo teso verso quell’idea». Come l’amore, l’infinito non si afferra. Si desidera, si cerca, si invoca, anzi si brama, fino a voler annegare nella sua immensità: «E il naufragar m’è dolce in questo mare».