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L’autentica bellezza schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano». Benedetto XVI invitava gli artisti riuniti il 21 novembre 2009 nella Cappella Sistina a riempirsi gli occhi di bellezza, per abitare il mistero e aprire nuovi orizzonti a cuore e mente. La bellezza porta alla contemplazione e insieme al cammino: la stella che brillava nei cieli e negli occhi dei magi, guida per i loro passi fino ai piedi del Bambino Gesù; l’annuncio delle donne, che spinge Pietro e Giovanni a correre verso il Sepolcro vuoto: le parole non potevano bastare, ardevano dal desiderio di vedere. Nel racconto evangelico il vedere viene prima del credere: solo uno sguardo può abbracciare la Parola incarnata e farla diventare ragione di vita (cfr. Gv 1,36-39; 20,8). Quel vedere che infrange la notte: all’alba della Genesi il Creatore soppesa con uno sguardo il frutto della sua Parola per apprezzarne la bontà, e questo è possibile solo dopo che “la luce fu” (Gen 1,4). Lo sguardo ci apre all’orizzonte – ha a che fare con l’assoluto, ciò che è libero da qualsiasi determinazione –, ci fa percepire l’infinito. Ed è quel che viviamo da piccoli, e che perdiamo da adulti: la gratitudine dello stupore. Lo sguardo del credente non ha paura del mistero perché, come insegna Abraham Heschel, «oltre il mistero c’è la misericordia». «La fede è fatta per l’orecchio, e l’orecchio per la Parola di Dio», diceva il poeta spagnolo José Bergamín. Ma la fede è fatta prima ancora per l’occhio. Cristo ci invita a spalancarlo sul mistero: non vuole una fede cieca. Lezione ben compresa da Gilbert Keith Chesterton: «I veri mistici non nascondono misteri, ma li rivelano.

Fissano le cose alla luce del giorno e, dopo che esse sono state viste, sono ancora un mistero. Ma i mistificatori nascondono le cose nell’oscurità e nel segreto; e quando vengono trovate, sono banalità». Il mistero è racchiuso in quello sguardo che ci conosce fin dal grembo di nostra madre. Noi ci riflettiamo in quello sguardo originario e scopriamo noi stessi fino in fondo e il legame con Colui che è nostra genesi e nostro destino. «Il miracolo più grande – diceva don Luigi Giussani –, da cui i discepoli erano colpiti tutti i giorni, non era quello delle gambe raddrizzate, della pelle mondata, della vista riacquistata. Il miracolo più grande era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre». In questo sguardo si gioca il rapporto tra Cristo e i discepoli di allora, di oggi e di ogni tempo a venire. Perché non esiste amore senza sguardo: sguardo che ferisce, che ci fa vivere la gioia e le pene dell’innamoramento, che scombussola, che mette in gioco, che cambia la vita. Una reciprocità che ben coglie Cristina Campo: «Tu, Assente che bisogna amare… / termine che ci sfuggi e che c’insegui». Credere e amare per il cristiano sono sinonimi. Innamorati e testimoni. Il testimone non trabocca di parole ma di gioia. Il suo sguardo l’ha reso partecipe di una storia, di un evento, partecipe della vita, di quel gioco quotidiano di libertà e provvidenza. Questo racconta la Bibbia: non ci offre miti, ma la storia dell’incontro tra Dio e l’uomo. Un’evidenza nell’immaginario medioevale, dove la fede è l’orizzonte del ricco e del povero, del sapiente e dell’illetterato: un mondo trasfigurato dalla presenza del divino, un universo simbolico dove la terra guarda al cielo e dal cielo si lascia fecondare. Ma lo sguardo può anche uccidere. Nei nostri giorni, dove ormai da tempo il logo ha sostituito il simbolo, domina Narciso, vittima dei suoi stessi occhi. Come lui, anche noi ci perdiamo nell’immagine del nostro io, siamo rapiti dalla superficie, incapaci di uno sguardo che vada oltre, nei cieli come nelle profondità interiori.

Abbiamo solo sostituito lo specchio d’acqua con una molteplicità di schermi. Dimentichiamo che «l’uomo è se stesso solo per il fatto che il suo volto è illuminato da un raggio divino» (Henri de Lubac). E a nostra volta possiamo essere luce per lo sguardo altrui. Era questo l’invito che Carlo Maria Martini rivolgeva ai giovani nel maggio 2001: «Siamo una fiamma piccola, apparentemente fragile, insignificante: lo sono io, lo siete voi, lo è anche la Chiesa nel mondo. Ma questa fiamma fa risplendere una luce nella notte, è un segno di speranza, la si vede da lontano: è ricca, piena di calore, infonde fiducia, apre nuovi orizzonti. Siate coscienti che una fiamma, anche se piccola, vince la notte». Lo sguardo che abbraccia l’Ecce Homo e il Risorto è l’unico sguardo in grado di sfidare l’oscurità. «All’inizio dell’essere cristiano – scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva […]. Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr. 1Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro.

di Giovanni Gazzaneo