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La bellezza perduta e il dialogo possibile

La bellezza perduta e il dialogo possibile

Il dialogo tra Dio e l’uomo si declina fin dal suo incipitnell’orizzonte della bellezza. Il Padre crea i cieli e la terra e gli esseri viventi, ma solo di Adamo ed Eva dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Un dialogo che prima di essere parola è sguardo. Noi siamo il suo riflesso e solo nel suo sguardo possiamo riconoscerci per quel che siamo realmente: non specchio di Dio, ma figli suoi. Modellati nel profondo dell’anima nostra dalla domanda di bene, di vero e di bello che trova piena risposta nell’Altissimo. In questo dialogo tra la nostra sete mai appagata e l’Infinito che ci sostiene si concentra la sacralità della nostra vita, il nostro essere a Sua Immagine. Ed è un dialogo dove l’orizzonte dello stupore può essere attraversato dalle nuvole del dubbio, dell’angoscia, del tormento senza per questo perdere la sua verità e la sua bellezza… Nulla viene negato, tutto è abbracciato: il canto di Davide, il pianto di Giobbe, il Crocifisso e il Risorto.
 
La storia del rapporto tra Dio e l’uomo ha ispirato i primi dipinti delle catacombe e le grandi cattedrali. Perché l’Annuncio cristiano non può semplicemente essere detto e ascoltato, fin dall’origine chiede di essere contemplato: l’arte si fa espressione della ricerca del volto di Dio per l’uomo di ogni epoca e di ogni luogo. E in virtù dell’Incarnazione ha assunto uno statuto di sacralità sconosciuto alle altre religioni.
Ma con l’epoca dei Lumi il legame si spezza: la negazione di Dio provoca la necessità di cancellare anche la sua immagine. La proclamazione di grandi ideali, con la Rivoluzione francese, si accompagna alla persecuzione anticristiana, alla trasformazione delle chiese in templi della ragione o alla loro distruzione. Nell’arco di breve tempo il rapporto millenario tra Chiesa e arte sembra trasformarsi in frattura insanabile.
Questo “divorzio” presenta due chiavi di lettura. La prima: per gli artisti il sacro perde attrattiva, non è più l’orizzonte in cui far nascere forme nuove di espressione. L’artista diventa il demiurgo di un mondo generato esclusivamente dalla sua interiorità. Campione dell’assolutizzazione dell’individuo, autolegittimato dalle sue esigenze e dai suoi diritti, non avverte più l’urgenza di rivolgere il suo sguardo verso Dio. L’azione delle avanguardie porta a compimento la frattura tra arte e sacro: la loro influenza si impone su una produzione e un mercato dell’arte – che anticipa di decenni tutte le altre forme di globalizzazione e imporrà il dominio culturale, prima che commerciale, degli Stati Uniti – ormai sganciati dai secolari meccanismi di mecenatismo nei quali la Chiesa aveva svolto uno dei ruoli principali, dall’Europa alle frontiere dell’evangelizzazione.
 
La Pop Art è tra le incarnazioni più autentiche di questa “evoluzione”. Il grande merito di Andy Warhol – oltre alla sua sincerità: «Faccio sempre la stessa cosa, è la stessa robaccia» – è aver capito che a muovere l’Occidente non è più l’uomo ma i suoi prodotti di consumo, dal detersivo alla Coca-Cola. Cancellato Dio dagli umani orizzonti, sono le cose ad assumere lo status di nuovi dèi, tanto da meritare il ruolo di soggetto artistico: il successo, per quanto effimero possa rivelarsi, ha sostituito la salvezza. Sono le conseguenze della modernità che – dopo l’illusione positivista di un rapporto uomo-mondo risolto dal sapere tecnico-scientifico – si rassegna alla debolezza del pensiero, a una razionalità incapace di cogliere la verità dell’essere per il semplice fatto che questa, la verità, viene “superata” e relegata a scomodo retaggio del passato. E così la ragione, da Nietzsche in poi, può afferrare solo apparenze. Un orizzonte di pensiero che si riflette nel mondo delle arti, dove l’apparente inconsistenza dell’essere si mostra attraverso l’inconsistenza di opere e materiali, nel vuoto e nella ripetitività dei video, nella povertà e temporaneità delle installazioni…
L’altro polo della crisi riguarda la committenza ecclesiastica, incapace di mantenere lo stretto legame con il mondo delle arti che aveva caratterizzato nei secoli il suo mecenatismo. E questo sia per oggettive ragioni economiche, sia per la difficoltà di riconoscere istanze spirituali nelle nuove espressioni artistiche, preferendo arroccarsi nelle forme più tradizionali. Un esempio è il giudizio di denuncia che “L’Osservatore Romano” dà della Crocifissione del 1941, l’opera a soggetto religioso più importante di Renato Guttuso e una delle più significative del Novecento: monsignor Celso Costantini proponeva la messa all’Indice del dipinto e il deferimento al Sant’Uffizio dell’artista quale “pictor diabolicus”. Ma in quell’opera Guttuso voleva ritrarre il dolore del mondo in guerra: l’Abissinia, la Spagna, i gas e le stragi. Confiderà al cardinale e amico Fiorenzo Angelini di non aver ritratto il volto di Cristo perché non si riteneva degno. Ecco: passo fondamentale di un nuovo dialogo, che hanno auspicato e portato avanti gli ultimi pontefici – Paolo VI con particolare vigore –, è farsi compagni di cammino degli artisti. Un dialogo che sia capace di riappropriarsi di una storia mai interrotta e insieme di discernere, nel mondo dell’arte, tra nichilismo e mercificazione da una parte e ricerca autentica dall’altra.
 
di Giovanni Gazzaneo