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partenze 174

​«Addio, mia bella, addio / l’armata se ne va; / e se non partissi anch’io / sarebbe una viltà!», cantavano i volontari toscani che parteciparono alla campagna del 1848, nella Prima guerra d’indipendenza. Fremevano di orgoglio patriottico, gli studenti che si erano arruolati insieme ai loro professori e si sarebbero gagliardamente misurati con gli austriaci nelle battaglie di Pastrengo, di Curtatone e Montanara... Tanti anni fa noi la cantavamo in corriera, andando in gita, questa bella e ben ritmata melodia, insieme alle canzoni di montagna di cui avevamo una scorta inesauribile, quasi tutte malinconiche, a volte strazianti: ma le nostre giovani voci riuscivano a dare a ogni canto un’irreprimibile sfumatura di vitalità e di gioiosa baldanza.

Negli ultimi giorni, le semplici strofe della vecchia canzone mi frullavano nella memoria, con un timbro strano, di nostalgia quasi irreale. Cosa c’è di più naturale, e semplice, sembrerebbe, che credere nel Paese che ci ha visti nascere, in quella grande famiglia che è – o dovrebbe essere – la patria? Eppure questo sentimento non riesce naturale agli italiani, tranne che nel caso di vittorie calcistiche (o olimpioniche, magari). E così, mentre nelle altre nazioni la bandiera sventola ovunque e spesso i bambini – schierati in fila e tirati a lucido – iniziano la scuola cantando l’inno nazionale con tutta la voce che hanno, da noi su queste cerimonie aleggia molto spesso una certa ironia, anche se inespressa. Un po’ ci vergogniamo, un po’ sorridiamo: l’amara lezione della fine del fascismo resta impressa nelle nostre menti.

Forse è vero che siamo il popolo meno patriottico del mondo, come ripete un caro amico americano, ma forse siamo solo consapevoli – molto nel profondo – di chi veramente siamo: un popolo che è il risultato della mescolanza di mille etnie, di mille invasioni, di mille eserciti stranieri che sono scesi dai valichi delle Alpi o sono approdati alle nostre ridenti spiagge, per conquistare, spaventare, dominare. Oggi siamo un popolo che parla lingue diverse, ha fattezze diverse e differentissime eredità genetiche. Questo è il Paese che ci è toccato in sorte, questo nostro giardino d’Europa dal dolce clima, che tanti appetiti ha suscitato nei secoli, culla della bellezza bramata da molti. Dunque, forse, un nostro sottile modo di difenderci è quello della “dissimulazione onesta”, attenta a non rivelare troppo apertamente il sentimento, propensa allo sberleffo finale. E la bella canzone, dopo alcune strofe di tonante retorica si chiude infatti con tenera ironia, su un tema familiare e molto privato: «Io non ti lascio sola, / ti resta un figlio ancor; / nel figlio ti consola / nel figlio dell’amor».

di Antonia Arslan