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partenze 1

Mi gira per la mente una breve frase, «Era il cavallo stramazzato», come un ronzio fastidioso d’insetto. So che fa parte di un verso che conosco, anzi che conoscevo molto bene. Ma un verso di chi? Certo di un italiano del Novecento. Forse Cardarelli, con le sue estati, le sue strade, il suo camion sull’Appennino? Non Ungaretti: la parola “stramazzato”, mi pare, non gli si addice. Oppure è Saba il triestino, musicale cantastorie di un’umile umanità? O Sandro Penna? Ma io sento nella mente emergere con forza non le parole, ma il ritmo dell’intera poesia, e non è una delle sue veloci, intense quartine. Betocchi, allora, che ho molto amato?

Poi ecco riaffiorare: «Era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato». Adesso lo so: è Spesso il male di vivere ho incontrato del Montale degli Ossi di seppia. E rivedo me stessa innamorata di Meriggiare pallido e assorto, col suo aggrovigliato scattare di consonanti irte come i cocci di bottiglia sopra il «rovente muro d’orto» che mi pareva di toccare con mano. E così un po’ alla volta tornano tutti i versi di quelle due celebri quartine di endecasillabi rimati, in apparenza molto tradizionali, tranne che per l’ultimo verso, in cui il metro classico viene mascherato con scioltezza.

E ognuna si apre con uno dei due temi apparentemente contrapposti, ma in realtà entrambi pesantemente negativi, «il male di vivere» e il «bene non seppi»: il primo, presto diventato stanco uso linguistico, usato e abusato per ogni malattia psicologica nell’accidentato percorso della cultura del Novecento; e il secondo, in cui alteramente il poeta rifiuta che esista un “bene” che sia azione attiva, individuale, e si pone sull’algido, inavvicinabile piedistallo di una contemplazione riservata a pochi eletti, quello del «prodigio / che schiude la divina Indifferenza». Un giovane poeta ribelle, dunque, che combatte contro le cariatidi dell’ammuffita poesia ottocentesca? O non piuttosto, rileggendolo oggi, un finissimo letterato, ben inserito nella tradizione, che – attraverso la sottile trama di un linguaggio criptico e allusivo – ci propone, come unici emblemi e simboli del bene, una statua ferma nel sole meridiano, una nuvola e un falco? E l’essere umano è accettato solo come simulacro immobile, senza voce, immerso in una realtà in movimento?

Tiro fuori i miei Ossi di seppia, così amati, pieni di note e sottolineature: edizione Einaudi 1942. E quanto D’Annunzio nelle movenze sinuose e aristocratiche del verseggiare, nell’insofferenza verso i sentimenti plebei; e quanto Pascoli in questa natura dalla voce insinuante e fortissima, dal girasole all’acqua che ondeggia nel secchio, all’«ilare upupa» di un altro celebre avvio...

di di Antonia Arslan