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Un nuovo sentimento ritrovato tra le lacrime

di Antonia Arslan​

Cecilia piangeva. I suoi grandi occhi chiari nuotavano nelle lacrime; le mani erano abbandonate sui fianchi, inutili. Si guardava le unghie e piangeva col moccio, come i bambini. Si sentiva abbandonata dal padre, grande, alto, il suo idolo di sempre, con la sua barba curata e gli occhi pungenti.
Avevano sempre litigato ferocemente, si erano scagliati insulti sanguinosi, si erano ripromessi perfino di non frequentarsi più. E la madre, che inizialmente si era un po’ preoccupata, assisteva con aria abbastanza pacifica, avendo capito che non era salutare per lei intromettersi: dati i caratteri focosi e vibranti dei due contendenti, a fare le spese del litigio alla fine sarebbe stata lei. Cercava perciò di controllare il suo, di carattere, spigoloso e pronto all’intervento anche tagliente – ma spesso purtroppo non ci riusciva.
Ora tutto era cambiato. Lui si era ammalato, senza speranza di guarigione. Anzi, la malattia procedeva rapidamente, il viso s’infossava, la voce si era affievolita, benché l’umore caustico e le risposte azzeccate non mancassero: però aveva sempre meno voglia di parlare. E così mamma e figlia si trovarono a confrontarsi direttamente, senza la presenza del rispettivo – e certo ingombrante – marito e padre, che come un parafulmine per tanti anni aveva assorbito i loro malumori.
Battibeccavano su tutto, dal modo di somministrare una medicina alle ore di sonno, dai tempi della rassicurante signora Celia che assisteva il malato all’interpretazione di ogni parola che lui faticosamente pronunciava. Entrambe si sentivano fragili e disorientate, ma non riuscivano ad ammetterlo, non volevano far mostra di debolezza, nel timore che l’altra potesse approfittarne per stabilire un sopravvento che entrambe pensavano avrebbe potuto essere definitivo.
Cecilia guardava con apprensione sua madre, temendo che crollasse nel buio della tristezza che le aggrediva da ogni parte, da ogni oggetto d’uso, dagli appunti interrotti, dalla vecchia penna d’argento inoperosa in mezzo all’agenda rimasta aperta, o dalle innumerevoli pentole e pentoline che lui – cuoco sopraffino – teneva sempre pronte in un ordine noto a lui solo.
E anche la madre soffriva. Si sentiva privata, giorno dopo giorno, del proprio ambiente famigliare, dei suoi tempi e dei suoi spazi, nei quali la malattia penetrava subdola e vorace, imponendosi come un assoluto al quale si doveva obbedire. E si perdeva in piccole cure insensate, prendeva in mano libri e poi li metteva giù dopo aver letto mezza pagina, si arrabbiava sul nulla. Finché in una sera limpida e fredda di gennaio si guardarono in faccia, si sedettero vicine e si presero le mani, esitando un poco.
Si fidavano l’una dell’altra e si volevano bene. Ma in quel momento avvenne per loro – come un’epifania del cuore – la scoperta dell’amicizia, come la chiamarono in seguito. Non era un sentimento infantile, né illusorio; era l’aprirsi di qualcosa di nuovo, di un’emozione giusta e serena che crebbe e fiorì sulle basi del rapporto iniziale di una madre e di una figlia, bellissimo certo, ma che doveva col tempo mutare e maturare. Qualcosa si era inceppato, a un certo punto; entrambe si erano distratte per i tanti sentieri della calda, amabile vita. Ma quel dolore condiviso le aiutò a ritrovarsi.