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Un luogo fatato

​Ogni anno ritorno nel mio luogo fatato, le vallette amene e i dolci prati del Bellunese, dove scorrono il Piave e i suoi affluenti: fra cui il mitico Cordevole, il torrente dei giochi della nostra infanzia, selvaggi anche se sorvegliati da una quantità di severissime nonne e zie. Una mezza montagna dai morbidi colori pastello, dove è onnipresente il carpino dalle foglie seghettate e dai rami nodosi e ingarbugliati, ideali per arrampicarsi. Ville maestose e case di campagna si affacciano ovunque, grandi e piccine, circondate da curati pendii o da broli fitti di zinnie e coloratissimi gerani: e sempre il centro della facciata è impreziosito dal triangolare timpano veneto, infallibile indizio di un’antica civiltà, quando anche l’umile capomastro che finalmente riusciva a tirarsi su la casa prendeva a modello la bellezza che lo circondava. Molto, purtroppo, è stato rovinato dalle costruzioni degli ultimi decenni, ma in tanti angoli sembra ancora aleggiare l’ombra di Dino Buzzati, dei suoi racconti fantastici e dei suoi dipinti allusivi e misteriosi.

Andarmene dalla mia vallata mi è sempre difficile. Le alte montagne la circondano e la isolano come in un anello fatato, e io ho sempre creduto – forse con un pizzico di voluta ingenuità – che qui le cose cambiassero meno vorticosamente, che la gente abituata alla dura vita di montagna fosse meno attratta dai facili idoli del cosiddetto progresso.
Ma l’altro giorno, in partenza, quando sono andata a consolarmi con il solito cappuccino nella solita pasticceria, ho avuto un’inaspettata rivelazione. Vicino a me c’era un padre con il suo bambino, che improvvisamente cominciò a fare un maestoso capriccio: voleva anche lui il caffè.

Gettò sul pavimento la pasta che premurosamente gli era stata messa davanti e infine si buttò a terra gridando. Allora il padre disse al barista: «Gli faccia la schiumetta, non vede che è arrabbiato?», e pretese una tazzina di finto caffè, con molta schiuma sopra e tanto zucchero. Con un sospiro venne accontentato, e la piccola peste si calmò subito, guardandosi intorno con aria soddisfatta. Poi lasciò lì la tazzina semipiena. «Tutti così – si lamentò il barista quando i due se ne furono andati – vogliono la schiumetta e poi non la bevono, ci mettono mezz’ora per scegliere una pasta e quando l’hanno in mano la gettano per terra... Oggi i pochi bambini che nascono fanno presto a capire di essere loro i padroni. E i genitori credono di essere moderni, di cavalcare l’onda del progresso». E io partii pensando: «Ma chi avrà inventato la schiumetta?».

di Antonia Arslan