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Sogni di indipendenza sui banchi del liceo

di Antonia Arslan​

Quando la conobbi, Franca mi colpì subito. Mi impressionarono il suo tono deciso, la sicurezza nel parlare e il sorriso improvviso ed elettrizzante, che spandeva intorno un buonumore un po’ ironico. Era alta e bella, col viso chiaro e ben disegnato, studiava volentieri ma senza esagerazioni, parlava bene ed era piena di idee, che subito si incontrarono con le mie; e poi seppi presto che era anche una campionessa di tiro a volo, e mi regalò una sua fotografia, riccioli al vento e posa bellicosa, col fucile imbracciato.
Non ci voleva molto di più per farmi decidere che sarebbe stata la mia amica del cuore: e così avvenne per i cinque lunghi anni del liceo classico Tito Livio, anche se le amiche del cuore furono in realtà due, lei e la dolce Fiorenza, che ci ascoltava con gentile, riservata indulgenza e ci ospitava sempre per studiare, chiacchierare, andare a ginnastica (abitava proprio di fronte alla palestra della scuola), e tornare poi tutte insieme a casa sua, a divorare le merende favolose preparate dall’ineguagliabile Margherita.
Ben presto stabilimmo una formazione di banchi solida come una corazzata: davanti sedevano Franca e Fiorenza, le più alte, dietro io e Marilena, una ragazza garbata, studiosa e sorridente che ci lasciava fare. Era tutto uno sfarfallio di bigliettini che andavano e venivano ogni giorno, per poi finire a riposare nelle capaci tasche dei nostri vasti e informi grembiuli neri (solo una delle nostre compagne ne sfoggiava uno molto elegante, di lucido satin stretto in vita e piuttosto corto). Al riparo delle ampie spalle delle mie amiche, io facevo di tutto: leggevo romanzi, mi innamoravo di Rimbaud, allineavo i pupazzetti di pezza, i miei portafortuna che venivano da Susin di Sospirolo e che facevo parlare sussurrando con voci diverse. Qualche volta stavo anche attenta, soprattutto nelle ore di letteratura o di grammatica greca, che mi piaceva come un divertente gioco di incastri, con le radici dei verbi che variavano secondo leggi misteriose ma alla fine entusiasmanti, perché ci si doveva affidare all’orecchio, come a una specie di intuizione acustica – o così mi pareva.
Avevamo, come succede spesso, un nostro linguaggio privato. E prima di tutto, sentendoci molto adulte e mature, ci eravamo date dei soprannomi: Franca era Birretti; Fiorenza, Doppio Whisky; io, Sbevazzumi. I nomi non derivavano da effettivi alti consumi alcolici ma dai nostri sogni di indipendenza: eravamo ancora abbastanza infantili da accontentarci di quelle innocenti trasgressioni linguistiche e dei brividi deliziosi che ci procuravano. Ma sentivamo con forza già adulta la potenza del legame che ci univa e la gioia che ne derivava, sicché fatti, eventi, personaggi, altre amicizie dovevano passare al vaglio di tutte e tre per essere accettati.
E ancora oggi questo misterioso legame esiste, è reale. Il tempo, le persone, le cose, gli amori ci hanno portate lontano; e nessuna di noi è indenne dal dolore e dalle pene con cui la vita plasma ogni destino. Ma bastano pochi momenti insieme, una smorfia, lo scintillio di un ricordo accennato o di una parola evocatrice, perché un nodo tenace si rinsaldi, la corda ancora intatta risalga dal lago profondo in cui è immersa e ci restituisca quel nostro cuore di allora.