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Rispecchiandosi in Rimbaud

di Antonia Arslan

Vengo oggi al secondo dei miei ragazzi di grazia. Avevo già come amico del cuore Catullo di Verona. In un pomeriggio qualsiasi in cui non avevo voglia di studiare, mi misi a curiosare fra i libri di mia madre, e presi dallo scaffale la sua vecchia antologia francese, attirata dalla morbida copertina marezzata. Il libro si aprì da solo su due pagine molto usate, e subito mi balzarono agli occhi quattro versetti lievi, come danzanti su rime carezzevoli, che non sarei mai più riuscita a dimenticare: «Elle est retrouvée. / Quoi? L’Éternité. / C’est la mer allée / avec le soleil» («L’ho ritrovata. / Che cosa? L’eternità. / È l’onda del mare / che se ne va con il sole»).
Mi si incisero in mente come un’esplosione di immagini e di colori, ma non riuscivo a tradurli, perché il mare là era femmina, come l’eternità, e questo lo sentivo giusto: il movimento delle onde mi sembrava davvero materno ed eterno, una realtà senza tempo. E bisognava ricorrere alla femminilità delle onde per capire come si poteva ri-trovare, cioè trovare di nuovo, l’eternità, che è il tempo di Dio: il tempo senza tempo. Fu con gli anni – e con le letture – che mi accorsi che proprio per questo tradurre è sempre ingannevole, ogni lingua plasma a suo modo le grandi parole fondamentali: se anche in francese, come in italiano, il tempo è un austero personaggio maschile, in tedesco, come un ermetico Giano bifronte, diventa vezzosamente femminile, die Zeit. E la luna è maschio, il sole femmina... Ma allora rimasi solo incantata dalla bellezza.
L’autore di quei versi folgoranti si chiamava Arthur Rimbaud, e nell’antologia di mia madre non era trattato molto bene. Era un ragazzaccio geniale e sventato che smise di scrivere a vent’anni e fu mercante in Africa, lessi: e subito me ne innamorai, anche perché nella pagina seguente c’era un’altra poesia che mi si impresse in mente con strana facilità, e cantava senza sconti le malinconie profonde e la tragica tristezza dell’adolescenza: «Oisive jeunesse / à tout asservie, / par délicatesse / j’ai perdu ma vie. / Ah! Que le temps vienne / où les coeurs s’éprennent» («Pigra giovinezza / a tutto asservita / per delicatezza / ho perso la mia vita. / Ah! Che venga il tempo / in cui i cuori si prendono»). Come mi riconoscevo nella pigrizia abbandonata dei vuoti pomeriggi estivi, quando tutto sembra inerte e sbiadito («It’s a lazy afternoon…» era quell’anno la mia canzone preferita, ed ero convinta che conoscerla e cantarla mi avvicinasse a sapere l’inglese). E poi quella pigra giovinezza era “asservita”, ed era proprio così che spesso mi sentivo, asservita: alle mode, alle persone, a tutto; “pigra” perché incapace di reagire, lasciavo che tutto mi passasse sulla testa. Ma giovinezza rimava con delicatezza, ed era vero, anch’io ero “delicata”, volevo essere amata e apprezzata, e così anch’io perdevo la mia vita. Eppure sognavo il tempo in cui i cuori si prendono l’uno dell’altro...
Come sembrava facile perderla, la vita, a diciassette anni, quando sembra “un fiore di vento”, come scrissi su un foglietto di quaderno a righe rosse in quell’estate fra i monti, tutta presa di malinconia. Ma alla fine di settembre mi comprai il libro di Rimbaud e imparai tanti suoi versi a memoria: così so come chiamarlo, e anche la sua voce mi parla fitto e mi dà gioia e incanto.