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PENTAGRAMMA 174

Quando nel 1610 Claudio Monteverdi (1567-1643) fece pubblicare insieme la Missa “In illo tempore” e il Vespro della Beata Vergine voleva abbandonare la carica di maestro della musica del duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, per trovare un nuovo impiego in ambito romano o comunque con l’avallo del pontefice (la dedica a papa Paolo V viene letta in questo senso). Quale biglietto da visita poteva risultare migliore di due grandi opere sacre, una fortemente contrassegnata dall’antico e rigoroso stile polifonico a cappella (la Missa), l’altra pensata come sfoggio di tutto quanto di più audace e innovativo potesse scaturire dalla sua inesauribile vena creativa (il Vespro)?

Da un lato ha così dato vita a un gioiello di tecnica contrappuntistica nella più pura tradizione palestriniana (solo voci, senza strumenti), facendo riferimento alla forma musicale per eccellenza fin dai tempi di Machaut e Dufay (quella della Messa, appunto) secondo la prassi rinascimentale dello scrivere brani liturgici sopra un “canto dato”. Non pare poi priva di significato neppure la scelta della fonte del materiale melodico, che Monteverdi ha fatto simbolicamente ricadere sul mottetto In illo tempore del maestro fiammingo Nicolas Gombert: un’allusione (“A quel tempo…”, recita infatti il titolo latino) a un linguaggio irrimediabilmente legato a un’epoca ormai lontana. Dall’altro ha invece investito i grandi drappeggi sonori della sequenza di antifone, salmi e inni, ma ancor più il clima riflessivo dei mottetti, che compongono il Vespro della Beata Vergine di una nuova consapevolezza artistica, prima mirabilmente forgiata in ambito madrigalistico e poi perfezionata nel campo del nascente melodramma, e ora pronta per il suo rigoglioso debutto in ambito sacro. Facendo leva sulle più disparate forme espressive offerte da tutte le combinazioni possibili inaugurate dalle spinte progressiste del “moderno” stile concertato (la cosiddetta “seconda prattica”), dove a salire sulla ribalta non c’è più l’intreccio di tante voci ma una sola, chiara e intellegibile, con l’apporto decisivo degli strumenti a rivestirla di emozioni e sensazioni.

Non si tratta di musica più semplice, ma soltanto “diversamente complessa”; dal loro confronto diretto queste due opere rivelano la straordinaria libertà artistica con cui Monteverdi ha vissuto da protagonista il suo tempo, con un occhio rivolto verso un passato glorioso e l’altro spalancato verso un futuro che proprio a partire dalle sue musiche avrebbe trovato lo slancio per la diffusione della spiritualità barocca, in cui i sensi rappresentano la via di accesso privilegiata all’anima e all’intelletto.

di Andrea Milanesi

(ha collaborato Alessandro Beltrami)​