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Nello sconforto dell’ora

​Prima Comunione, 30 luglio 1944. «O Signore / investi lei della tua grazia / sorreggi noi / nello sconforto dell’ora»: molto pensò, papà Khayel, nello scrivere il santino-ricordo per la Prima Comunione della bambina. Lei aveva sei anni appena compiuti, e finito la prima elementare: una scuoletta di cinque bambini, quattro maschi e lei, la bambina curiosa, indocile e appassionata. La sua prima figlia. Aveva paura del futuro, in quell’estate del 1944. Chissà che cosa avevano in serbo i tedeschi per contrastare la sconfitta che tanti segni ormai annunciavano? Quale arma segreta? Molto si parlava, si sussurrava, della V2, di Von Braun, delle officine misteriose dove si provavano le nuove armi. E proprio lui, che aveva studiato e si era specializzato a Berlino, nutriva in fondo al cuore non la speranza ma il terrore che gli efficienti tedeschi non si sarebbero fatti sconfiggere facilmente, che avrebbero tirato fuori dal cappello qualche inimmaginabile sorpresa di distruzione e di morte.
Anche se non ne parlava mai, sapeva bene quello che era successo agli armeni, e alla sua famiglia, dopo il 1915: scomparsi in un buco della storia che si era rinchiuso su di loro, come se non fossero mai esistiti. Quelle lettere, quelle fotografie nella cartelletta verde che ogni tanto suo padre tirava fuori dal cassetto della scrivania, da solo, pensierosamente, non erano solo ritratti di morti, erano le esili tracce delle non-persone di cui la vita e la morte non erano mai avvenute, la cui esistenza ormai era nota solo agli occhi di Dio.
Ma Khayel era anche cupamente affascinato dall’insondabile abisso in cui scomparivano gli ebrei: vi percepiva l’azione di un male altrettanto assoluto.
Fermare quei treni diretti al nord, si sarebbe dovuto. Ma almeno si poteva andare come medico al campo di transito, visitare quei poveretti malati e dichiararne alcuni gravi e infettivi, poi ricoverarli in clinica e fingere importanti operazioni; e infine fasciargli il viso come a mummie dolenti. E lo fece, papà Khayel, insieme a un piccolo gruppo di amici e alla mitica suor Prosdocima. Ma si sentiva comunque inadeguato, e non lo raccontò mai, se non forse alla sua bella Vittoria nei loro conciliaboli notturni, quando i bambini, nonno Yerwant e zia Henriette dormivano. Con incubi antichi che riemergevano oscuramente, per la povera Henriette, la sopravvissuta; con placidi sonni, per i tre bambini, che tutto assorbivano nella loro celeste fiducia.
Nonno Yerwant, nella quiete della sua camera, rifletteva. A onde gli arrivavano i pensieri sul futuro nebuloso che ormai lo riguardava assai poco, sul passato così lontano nella piccola città, alla scuola dell’abate francese, sulla famiglia scomparsa. Pensò che doveva raccontare a qualcuno quei luminosi ricordi, e che doveva prepararsi a farlo prima di andarsene anche lui a raggiungere la sua cara contessina vestita di viola, così fragile, così “veneta”, così devota. Allora pensò alla bambina, che aveva appena fatto la Prima Comunione, e a quella frase: «Signore, investi lei della tua grazia». Ecco, era lei. Ci voleva una mente appena sbocciata per ascoltare con semplicità, per assorbire il racconto della sua storia, dei suoi rimpianti e delle sue pene con cuore limpido, pronto allo stupore e alla meraviglia. E – si disse – con fresca memoria.