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Nelle antiche strade la Padova segreta

​Si va volentieri in bicicletta per le vie di una città come la mia, quasi completamente piatta, il cui punto più alto, per fortuna quasi di fronte alla nostra casa, si alza di ben tredici metri sul livello del mare.
Poche salite e poche discese, questo è certo, e niente corse in discesa e vento fra i capelli, ma un confortevole tranquillo pedalare fra strade e stradine dal tracciato medievale e spesso bizzarro, con angoli improvvisi e fresche rientranze, dove ancora si scorgono qua e là i capitelli dell’antica devozione popolare.
Molte sono le perle nascoste di Padova – questa città così antica, fondata prima di Roma da un troiano sfuggito all’incendio e alla distruzione, come si ricorda con orgoglio, anche se la sua tomba fastosa di fronte al palazzo della Provincia è sicuramente un falso –, ma è bello ogni tanto scoprirne di nuove: non solo i colorati cicli di affreschi trecenteschi, gioielli conservati spesso all’interno di cappelle poco conosciute, non le grandi piazze in sequenza, piene di luce, di traffici, di variopinte meraviglie, ma gli umili vicoli interni, nei quali ci si inoltra passando per un arco umido e oscuro, dove si infila con cautela solo qualche rara automobile.
Brevi sono, e nascosti: gli abitanti non ne parlano molto, non c’è motivo, non ci sono al loro interno splendide costruzioni o speciali curiosità turistiche. I loro fascini sono più sottili, uno diverso dall’altro. Di fianco alla chiesa dei Servi, per esempio, si apre l’ingresso di uno dove vado ogni tanto perché mi sembra un caldo nido dimenticato; ma più spesso mi piace arrivare al ponte sul canale prima di Porta Pontecorvo, e infilarmi nel vicolo Santonini. Là, attraverso un arco lungo, stretto e buio come un misterioso ingresso, si arriva a poche casette che si fronteggiano, minuscole e garbate, con fiori alle finestrine basse e imposte di legno verde, a volte aperte a volte semichiuse: dipende dall’ora e dalla stagione. Per un momento il viandante si immagina un panorama olandese o fiammingo; intravvede l’acqua placida del canale che scorre oltre le case sulla destra e l’erba lucida sulle sponde.
Ma poi le casette finiscono, mentre il canale prosegue, e sulla destra si apre un panorama incredibile. Magnifiche e sontuose, le cupole della basilica di sant’Antonio appaiono oltre il canale, rosate, e veleggiano verso Oriente passando sopra la città tanto più piccola.
Qui però non siamo davanti all’ingresso, sulla grande piazza; questa è la parte posteriore, segreta, dell’immensa chiesa. L’abside è nascosta da una muraglia altissima, su cui si aprono tante finestre, e l’effetto è curioso, come se le cupole vivessero di vita propria, e fossero posate sul nulla: come se fuggissero, lievi e leggiadre, dalla nostra umana insipienza. Allora mi prende una strana ansia, di trattenerle, di fissarle, come in una fotografia. Ritorno indietro oltre il sottopassaggio e sbuco dal buio alla luce della lunga piazza davanti alla porta antica. Sfolgora un sole obliquo, riflettendosi sulle irregolari lastre del selciato, mentre dal portico sulla destra echeggia una melodia. Suono, e mi apre la mia amica Clémentine affacciandosi sulle scale svelta e leggera, col suo flauto d’oro in mano. E lassù da lei, in alto, rivedo le cupole ferme nel sole.

di Antonia Arslan