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Nascosto a Milano c’è un tappeto volante

​Nella mia vita ho fatto esperienza di molti alberghi, di tutti i generi, in tanti posti diversi: ho perfino dormito in quello che forse era l’ultimo xenodochion ipnou greco, l’“albergo del sonno”, luogo dove si poteva soltanto dormire, silenziosamente, rispettando gli altri dormienti, senza acqua corrente o altra comodità, e per qualsiasi necessità si doveva scendere al pianterreno, alla fontana chioccolante nel centro del cortile. Un corridoio aperto girava tutto intorno: faceva molto caldo in pieno agosto nel centro del Peloponneso, e in realtà nessuno davvero dormiva, tutti camminavano su e giù per il lungo corridoio come spettri assonnati.
Ma il mese scorso a Milano ne ho scoperto uno molto speciale. Dovevo partecipare a un incontro nel tardo pomeriggio, e necessariamente fermarmi là: non ci sono treni per il Veneto alla sera. Mi incontrai con un’amica alla Stazione Centrale, e andammo insieme all’albergo prenotato per me, che – mi era stato scritto – si trovava appunto molto vicino alla stazione. Mi avevano mandato anche una foto del luogo, una bella palazzina liberty, ma percorrendo la strada indicata non trovammo nessuna costruzione somigliante, e al numero indicato c’era solo un grande bar, non molto illuminato.
Entrai, e chiesi dell’albergo. Sorpresa: era il bar che serviva da portineria dell’albergo... Fra un caffè e uno spriz il gentile barista mi chiese un documento, e poi mi consegnò un cospicuo mazzo di chiavi, che mi mandarono immediatamente nel panico. Ho sempre avuto un problema con le chiavi: le infilo male, le perdo; con me le serrature tendono a non aprirsi e le chiavi più semplici a opporre resistenza. Così chiesi che per favore qualcuno mi accompagnasse, e uno svelto giovanotto venne con me due palazzi più in là, infilò la prima chiave con destrezza in un grande portone, nel quale si aprì un piccolo uscio. Ci infilammo in un corridoio buio e lui usò una seconda chiave per sbucare in un cortile crepuscolare, circondato da alti edifici. Poi, aperto un altro ingresso a sinistra, attraverso un secondo corridoio immerso in una luce fioca e dopo aver salito diversi gradini, si fermò di fronte a un’ultima porta, munita di una serratura imponente.
Qui le cose richiesero un certo impegno, ma alla fine entrammo in un appartamento lindo e carino, mi aprì l’ultima porta, quella della mia stanza, mi consegnò solennemente il mazzo di chiavi e se ne andò fischiettando. Io depositai la valigia e in fretta mi recai al mio appuntamento. E al ritorno, dopo cena, riuscii ad adoperare le chiavi senza sbagliare. Non era molto tardi, presi un libro e cominciai a leggere: ma un po’ alla volta mi si insinuò in mente una strana irrequietudine, insieme a un profondo senso di sollievo. Seduta nella stanza accuratamente chiusa che mi circondava, non mi pareva più di essere in una città che conosco, nel mio ambiente, ma in un qualche luogo sconosciuto, in un caravanserraglio mediorientale, a Damasco o a Bassora; ma ero tranquilla perché tutte quelle chiavi mi proteggevano. Come su un tappeto volante, mi parve allora di attraversare cieli e spazi e pareti di case, e di essere finalmente arrivata nella città della Fortezza di Pietra, il luogo dei miei antenati, di sentire le voci, l’odore delle spezie e il calore del forno interrato. E mi invase una quieta felicità.