Luoghi dell' Infinito > Mariotti Il Requiem di Giobbe

Mariotti Il Requiem di Giobbe

​di Pierachille Dolfini

Quando sul leggio ha la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi il pensiero di Michele Mariotti va al Libro di Giobbe: «Prendo la Bibbia e lo rileggo ogni volta che devo dirigere la grande pagina sulla morte scritta da Giuseppe Verdi nel 1874» racconta il musicista pesarese. «Facile sentire il Dio di Giobbe nel terrore del Dies Irae» riflette il direttore d’orchestra, che ha diretto per la prima volta il Requiem nel 2013, «ma il cuore della Messa non è solo qui, non nelle trombe del Tuba Mirum, perché la partitura ha pagine introspettive, delicate, dove a prevalere è il dubbio più che il dolore gridato». Il paragone è con Aida, «che tutti associano alla Marcia trionfale, ma che in realtà è un’opera intima», o con il Primo concerto per pianoforte e orchestra di Pëtr Il’ič Čajkovskij che «dopo un inizio roboante si fa cameristico».
Uno sguardo intimo, interiore. Che è lo sguardo del sacro. E fa un certo effetto sentire che l’immagine che il Requiem evoca a Mariotti è quella del Giudizio universale di Michelangelo nella Sistina, «ma non tanto per la sua monumentalità, più per la capacità di aver segnato un prima e un dopo nella storia. Così come ha fatto Verdi con la sua partitura». Dove c’è uno sguardo umanissimo. «Quello di un uomo non fragile, ma meno sicuro, che si sente piccolo di fronte alla grandezza di chi lo governa. Un uomo che si pone delle domande». Che sono le nostre domande. Verdi le ha messe in musica nella Messa da Requiem. «Le domande esistenziali che si pone Giobbe, quelle che rivolge a Dio chiedendo: perché mi fai questo? E alla sua domanda di senso il Signore dà una risposta estetica: dove eri tu quando io creavo le stelle del cielo? Dio lo sommerge di bellezza» riflette Mariotti che evoca un’altra icona pittorica, Giobbe e le sue figlie di William Blake.
«Immagine di una pacificazione finale, quando Giobbe, dando del tu a Dio, dice che ha capito che non gli è dato di capire, ma accetta questa situazione dove il male fa parte della vita. Quasi una consolazione, evocata dalla Bibbia – nel Libro di Giobbe e nel Qoelet – e dal tratto leggero di Blake, che arriva anche nell’accordo che chiude il Requiem, un Libera me sussurrato» che suggella l’approdo di un viaggio nel dolore alla fine del quale un dubbio resta. Ma, come canta Francesco De Gregori, sono solo «le persone facili che non hanno dubbi mai», suggerisce Mariotti, che torna a Michelangelo: «Nel Giudizio universale c’è la luce del Risorto, ma intorno c’è il caos. Come nel Requiem dove il Dies Irae e il Confutatis sono pagine tremende. Ma in questo punto chiedo al coro di non caricare il suono sul tremenda, piuttosto sull’illa perché è quella la certezza, il fatto che il giorno del giudizio ci sarà» spiega Mariotti ricordando che «poi arrivano il Recordare, l’aria del tenore dell’Ingemisco con il passaggio da minore a maggiore che dice la certezza che c’è qualcuno che si fa carico dei nostri peccati. E arriva l’Agnus Dei dove il Qui tollis peccata mundi non è da intendersi come l’arrivo di qualcuno che cancella le colpe, ma le prende su di sé». Un perdono che, riflette il direttore, «è lo stesso del Contessa perdono del finale de Le nozze di Figaro di Mozart».
L’ascolto da ragazzo, la prima volta sul leggio a Bologna nel 2013, l’ultimo incontro nel 2019 a Dublino. Un tempo in cui «è cambiata in me la percezione di quello che è il Requiem. Perché sono cambiato io e perché è cambiato il mondo, tanto che non ci sarà mai un Requiem uguale all’altro» dice il musicista spiegando di non avere una pagina prediletta della partitura verdiana, ma piuttosto di essere affascinato da «transizioni, modulazioni, dal tremolio dei violini che danno un senso di vertigine, dal coro che di fronte al mistero non riesce a sostenere una frase, ma balbetta e sussurra le parole del testo liturgico». E se tutta la prima parte del Requiem è dominata «da un senso di colpa che ci attanaglia – conclude Mariotti – nel Libera me Domine finale l’accordo in maggiore non evoca una morte che libera, piuttosto un’accettazione e una consolazione».