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L’umanità di Ettore e il grembiule di suor Giovanna

Antonia Arslan

Eravamo in seconda media e – secondo i programmi di allora – dovevamo misurarci con l’Iliade. La nostra professoressa era una suora gagliarda e temibile, che non era disposta a nessuna indulgenza quando si trattava dell’italiano (o del latino, che allora si cominciava a studiare presto).
A noi però suor Giovanna piaceva. Ci ascoltava e qualche volta ci dava perfino ragione; sorrideva facilmente e, al momento della merenda, mangiava di gusto il suo panino e si riempiva l’abito di briciole, che poi spazzava per terra con gesti impazienti delle mani. Spiegando, agitava molto le braccia, e non si accorgeva che noi facevamo lo stesso: la classe era percorsa da un fremito collettivo, tutte noi ci dondolavamo e ci divertivamo un mondo. Lei forse lo sapeva benissimo, e saggiamente ogni tanto ci lasciava sfogare, come si sfogava lei stessa, raccontandoci le belle storie dei protagonisti della letteratura. Ma quando cominciò a leggere Omero insieme a noi, si trasfigurò. Il mondo degli dei e degli eroi, i personaggi e i loro destini, Paride ed Elena, i Greci all’assedio di Troia, Priamo e i suoi cinquanta figli, i grandi duelli, gli interventi degli dei a favore dell’uno o dell’altro dei contendenti, tutto ci venne minuziosamente raccontato.
Ma quello che ci travolse – e ci fece imparare volentieri (e nei dettagli...) tutta la storia della guerra di Troia – fu la sua idea di dare a ciascuna di noi il compito di “indossare” (fu proprio questo il termine che usò) uno degli eroi. Dovevamo cercare nel libro i versi in cui si parlava di lui, copiarli in un quadernetto privato, farli nostri, possibilmente impararli almeno in parte a memoria; conoscerne il carattere, capire le sue scelte. E fu così che cominciammo a chiamarci fra noi coi nomi dei guerrieri omerici, a rivivere le loro battaglie, le vittorie e le morti; non senza barare, ogni tanto, risuscitando chi ci aveva impietosito o lasciando morire sul campo uno antipatico.
Tutte odiavamo Achille, perché era praticamente invulnerabile e (diceva Erika, ammiratissima perché aveva un padre campione di tiro) «che gusto c’è a vincere se nessuno ti può ferire?». Ma io per la prima volta nella mia vita provai un sentimento fortissimo di amicizia per Ettore il troiano, piangendo il suo coraggio umano e il suo destino di morte. Soprattutto mi pareva indecente lo squilibrio atroce del duello finale con Achille, l’ingerenza degli dei, l’inganno del falso Deifobo, la solitudine desolata dell’uomo lasciato solo di fronte a forze molto più grandi di lui. Un eroe che era appunto un uomo veniva sconfitto, ma da un semidio; e non periva da solo, perché era sulle sue spalle che pesava la responsabilità della vita della sua città, destinata a soccombere se lui soccombeva.
Mi sarebbe piaciuto poter fare qualcosa, magari intervenire sul testo, lasciargli almeno una possibilità, una speranza: non sentire – millenni dopo, in una classe di ragazzette qualsiasi – che il cuore mi si stringeva leggendo di Andromaca e Astianatte, e sapendo quello che l’eroe non sapeva, che il loro era un addio definitivo. E capii allora la forza immensa delle opere immortali e dei personaggi che le abitano, che diventano più veri del vero nella nostra mente e nel nostro cuore, e vi risiedono fedelmente come amici e compagni di vita.