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La spirale cosmica di Le Corbusier

di Mario Botta

La chiesa di Firminy, presso Saint-Étienne, disegnata da Le Corbusier negli anni ‘60 del secolo scorso e completata solo nel 2006 dall’architetto José Oubrerie dopo un periplo durato oltre quarant’anni, avrebbe potuto essere realizzata a Bologna. Così almeno era stato auspicato dal cardinale Giacomo Lercaro – fiancheggiato da una squadra di architetti (Giorgio Trebbi, i fratelli Glauco e Giuliano Gresleri e altri amici) confluiti attorno alla rivista “Chiesa e quartiere” – quando la gerarchia ecclesiale francese in un primo tempo si era opposta alla realizzazione di questo progetto, troppo azzardato per quei tempi. In Italia, al contrario, aleggiava uno spirito innovativo, con forti interessi verso i problemi sociali, politici e anche liturgici, sorretto dal cardinale e dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira.
È in questo clima che nel febbraio del 1965 una delegazione si reca a Parigi, latrice di un messaggio di Lercaro per Le Corbusier, con il quale il maestro veniva invitato «a costruire una delle nuove chiese per la città». Durante l’incontro, Le Corbusier lasciò interdetti i suoi interlocutori affermando che «una chiesa è come un’automobile, può girare su tutte le strade, faremo a Bologna il progetto “alto”, quello di Firminy è stato tagliato, me l’hanno circonciso». L’architetto Giuliano Gresleri, presente all’incontro, osserva che «era evidente la provocazione di Le Corbusier rispetto a tutti i ragionamenti sull’ambientamento con il sito cui egli stesso ci aveva educato con i suoi scritti e la sua opera o, forse, era un modo per saggiare il “carattere” dei bolognesi».
Poi la storia ha trovato il proprio corso: con accelerazioni di volta in volta alternate a lunghe pause, i promotori francesi (in primis il sindaco di Firminy, Eugène Claudius-Petit) riuscirono a portare a termine, nel 2006, la chiesa e offrire quest’opera come conclusione del lavoro e dell’ingegno di Le Corbusier (Bologna ebbe comunque modo di onorare il maestro con la ricostruzione, nel 1977, nella zona Fiera della città, del Padiglione dell’Esprit Nouveau del 1925).
Ora, noi dobbiamo riconoscere l’impegno, la bravura e la sensibilità con i quali l’architetto Oubrerie ha saputo affrontare l’oggettiva difficoltà di quest’opera, in quanto legittimo interprete (vi aveva lavorato fin dai primi schizzi accanto a Le Corbusier), e portarla a termine con una tecnica e una sapienza costruttiva inimmaginabili ai tempi della sua prima ideazione.
La costruzione si presenta come un objet a réaction poétique per l’intero comparto della città; un monolite di calcestruzzo in grado di catalizzare la frammentazione dell’intorno. Lo spazio interno “dimentica” l’idea dell’aula e propone un percorso a spirale con i banchi rivolti al presbiterio, come fosse un palcoscenico. L’insieme architettonico configura una potenza plastica degna delle cattedrali francesi. Una forte suggestione – quasi fosse una scultura abitabile – è conferita dalla “costellazione di Orione”, una sequenza di fori sparsi sulla parete est che irradiano fasci di luce appena sopra il presbiterio generando un’immagine sospesa e affascinante, come se il fruitore fosse immerso in un quadro del periodo “purista”.