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La lezione di Michelucci maestro del costruire

​di Mario Botta

Nel 1960 la Società Autostrade affida il progetto della chiesa di San Giovanni Battista alle porte di Firenze all’architetto Giovanni Michelucci (Pistoia, 1891 - Fiesole, 1990), un maestro che vanta un curriculum professionale di grande rilievo e una ricerca espressiva che Kenneth Frampton chiamerebbe oggi di “regionalismo critico”. Assieme a Carlo Scarpa, uno dei migliori architetti italiani sulla scena internazionale.
Il tema della chiesa veicola un’occasione di sosta nel gran correre lungo l’autostrada A1 da Milano a Napoli, e sollecita la possibilità di una pausa, di un momento di quiete e forse anche di meditazione. Un progetto di “servizio” autostradale ma anche un monumento commemorativo per gli operai caduti durante i lavori di costruzione dell’infrastruttura. Un segno importante che offre uno sguardo – al di là della retorica sull’efficienza tecnica ed economica – su un’impresa che realizza l’unità del Paese con un tracciato di oltre 750 chilometri.
Attraverso quest’opera, Michelucci è chiamato a interpretare la “modernità” di quel tempo: si tratta di un progetto che connota, con un segno forte, un percorso italiano della storia dell’architettura, un evento ante litteram dell’espressionismo organico che troverà fortuna più tardi, nei decenni di fine secolo, nelle forme esasperate del lavoro di Frank O. Gehry e dei suoi numerosi seguaci. Ma Michelucci è un severo galantuomo toscano che modella liberamente forme architettoniche tenendo conto dei materiali usati a seconda della loro capacità costruttiva. Sono tempi in cui non esistono ancora “rendering” o programmi di computer grafica; tempi in cui per avere l’immagine prospettica del progetto bisogna attendere che vengano tolti i ponteggi. Un’astinenza salutare per gli architetti poiché la cosiddetta libertà espressiva resta ancora vincolata ai materiali impiegati. Così, nella chiesa di San Giovanni Battista, terminata nel 1964, ritroviamo le murature di conci e di pietra toscana per gli zoccoli di base, il calcestruzzo armato per le parti strutturali con la grande tenda di copertura, e i pannelli di rame (ora ossidato) per le parti da impermeabilizzare: ogni materiale impiegato trova una sua propria funzione. Poi, Michelucci definisce le forme compositive: una bella sinfonia di tessiture e incroci spaziali che modellano con sapienza composizioni tettoniche, senza equivoci o fraintendimenti o invenzioni estemporanee. La libertà progettuale diviene rigore, i carichi devono essere trasmessi al suolo secondo la legge di gravità.
Pensiamo che questa realizzazione ai margini di Firenze risulti più significativa per la storia dell’architettura che non per l’evoluzione della tradizione liturgica. Nella parabola delle trasformazioni dei linguaggi architettonici prima della devastazione postmoderna, Michelucci usa forme espressive azzardate ma con accuratezza costruttiva. Le murature hanno una propria gravità (non sono superfici intercambiabili fra forze che operano a trazione e altre che agiscono a compressione) e definiscono realtà semplici dove trova ancora posto la presenza dell’uomo-protagonista. Grazie, carissimo Michelucci, per questa bella, grande lezione di architettura.