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Il sogno miracoloso che fa rifiorire una vita

Antonia Arslan

La materia dei sogni è misteriosa e fragile. Ci si sveglia con la testa piena di immagini, abbozzi di eventi, frammenti di ricordi che si sono impastati fra loro in modi che possono essere angoscianti, pacificanti, dolci o terribili: chi sogna non governa il mondo del sonno, vi si addentra di passo veloce e poi ci si perde dentro, e non lo può in alcun modo orientare.
Ma l’altra mattina mi sono svegliata piena di gioia, colma di gioia, perché in quel mondo altro – a volte perfino pericoloso – avevo incontrato un amico perduto. Non perduto del tutto, veramente: l’ho rivisto qualche mese fa, e ci siamo poi telefonati un paio di volte. Ma durante quella notte la nostra amicizia è rifiorita con colori accesi, avventurosi. Il suo fascino sottile rinasceva nella mia memoria, dopo tanti anni, e il suo sorriso pieno di affettuosa ironia permeava le pareti del sogno.
Superavamo insieme montagne sconosciute per stretti sentieri; a ogni svolta ci pareva di riconoscere luoghi dimenticati dove in altri tempi avevamo piantato bandiere di chiacchiere infinite, di dolci caffè pomeridiani, di cene silenziose e voraci. Ma ogni volta si rivelavano paesaggi mai visti, con brevi prati falciati e tutto intorno cupe foreste incombenti, austere faggete, castagni luccicanti di frutti. E nessuna presenza umana. Eravamo soli, ma non timorosi: soltanto, desiderosi di andare avanti per quei solitari sentieri fra i quali la nostra riscoperta amicizia intesseva ragnatele di gioia.
Eravamo immersi in un’intesa febbrile ma anche serena, come se fossimo entrambi sicuri che non ci sarebbe più stata tolta, che ormai era nostra, del tutto e per sempre. E tuttavia ai bordi di quella bolla che ci circondava io sentivo come un duro, sgradito nocciolo di precarietà, la consapevolezza remota del sogno. Tentai di scacciarla, ma subito sentii che avevo fatto male, che quel piccolo nucleo si ingrandiva, diventava una nuvola fosca, oscurava i colori. Il cielo in fondo alla strada che stavamo percorrendo divenne plumbeo e un odore acre di pioggia imminente si diffuse dappertutto. Ma il nostro cuore fedele resisteva.
E poi piano piano tutto si spense, e il volto dell’amico scomparve. Ma la gioia di averlo ritrovato mi accompagnò (per un’ora? o un minuto, nei tempi del sogno) fino al risveglio e per tutto il giorno seguente, mentre i dettagli non si confondevano, non scomparivano, rimanevano chiari e distinti, e mi davano consolazione.
Mi parve allora di aver ricevuto un dono inaspettato, un sogno veridico, come lo chiamavano i greci antichi. Ma capii di doverlo tenere in me, per non perderne la fragranza e la forza; capii che non dovevo raccontarlo all’amico lontano, prendere in mano il telefono e chiamarlo. Era un’altra cosa: e l’amico che pure mi era caro – che esisteva e viveva in una città straniera, e a cui volevo bene – non era più parte della mia vita attuale, non percorreva più insieme a me quei sentieri dell’anima che si sprofondano tortuosi verso il lago misterioso che giace al fondo di ciascuno di noi.
E ancora una volta ricominciai a pensare a Eraclito lo skoteinòs, l’oscuro: ai suoi brevi frammenti che a volte sono proprio oscuri (forse per volontà d’autore, forse perché “di seconda mano”, ricuperati da citazioni), ma tante volte contengono sprazzi di luce che ti accompagnano per tutta la vita.