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Il dono della poesia miele di consolazione

​Antonia Arslan

L’amicizia immateriale ma concreta, anzi per me concretissima, della poesia (anzi, mi pare più giusto dire delle poesie), è stata il tenace “filo rosso” che mi ha accompagnato e aiutato per tutta la vita. Il ritmo interno che forgia il senso e le immagini, le meravigliose cadenze della forma poetica, mi hanno sempre calmata nei momenti di angoscia e hanno sempre reso più lucidi i miei pensieri, con l’aiuto della memoria che improvvisamente faceva tornare a galla un verso, come uno squillo di tromba (un singolo verso, senza rapporto con nient’altro che con se stesso e l’eco del suo canto). Da questo, ripetendolo, mi si svolgeva in mente una catena di versi, poi un’intera strofa e infine tutta la poesia. E recitandola (a voce alta o sommessamente, o perfino silenziosamente) la confusione dei pensieri si calmava dentro di me, i colori della vita riprendevano a scintillare, un sentiero che prometteva consolazione appariva in mezzo ai rovi intricati in cui ero in procinto di perdermi.
E tutto avveniva in modo, appunto, molto concreto, realistico. La poesia mi veniva in soccorso, come un amico vero che ti toglie dai guai, o che comunque è sempre lì per te, se hai bisogno: e si srotolava da quel singolo verso iniziale, come pescando da un pozzo profondo nei recessi della mente, il canto adatto per me in quel preciso momento. Lieto o triste, romantico o motteggiatore, quel verso si appoggiava su un dato numero di sillabe che – come una suadente canzone – si rivelava il più adatto a incunearsi nell’attimo presente e a cambiarmi l’umore. Mi sarei accorta soltanto più tardi che era proprio quello che mi serviva.
E poi, sempre partendo dal verso iniziale che mi martellava nella mente, cominciavo a cantare l’intera poesia su una qualche semplice melodia che la rendeva più mia, finché un po’ alla volta quel verso e quella poesia si identificavano con la mia canzone, e diventavano un’onda benefica che mi aiutava a scendere nel lago profondo che sentivo dentro di me senza riuscire a raggiungerlo – e solo così finalmente riuscivo a ritemprarmi.
 Ho sempre considerato la memoria un dono inestimabile, e l’incredibile ricchezza poetica espressa in ogni tempo e ogni luogo da ogni popolo sulla terra come uno scrigno meraviglioso a nostra disposizione per esercitarla. La poesia è la cosa più vicina all’immortalità che la mente umana abbia prodotto: è fuori dal tempo, non conosce progresso e raggiunge la misteriosa sfera del sublime; ma anche ci parla delle cose che amiamo e temiamo, della scodella del caffellatte e della luna che sorge, degli affetti e delle malinconie, dei paesaggi d’infanzia e degli incubi adulti. Ed ecco che proprio in questi giorni di casalinga solitudine, in cui l’antica paura del maleficio e del contagio tutti ci opprime, è riemerso nella mia memoria un breve testo di un poeta elisabettiano, Thomas Nash, che avevo copiato da un libro tanti anni fa, senza sapere che oggi mi avrebbe consolato. Lo trascrivo, come un piccolo dono. Il titolo è Tempo di pestilenza:
«La luce scende dall’aria, / regine sono morte giovani e belle; / la polvere ha chiuso gli occhi di Helen. / Io sono malato e devo morire. / Che Dio abbia pietà di noi».
Sembra una breve, triste canzone; eppure, in un modo sottile e misterioso, il vento della poesia la circonda e ci conforta.