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Dahinden maestro a Monza

di Mario Botta​

Un concorso di architettura indetto a Monza nel 1970 per la chiesa di San Giuseppe, ne ha assegnato la realizzazione all’architetto Justus Dahinden, che ha presentato un progetto convincente in un quartiere residenziale a sud della città, una proposta che interpretava l’edificazione di una nuova chiesa come occasione di riordino di una parte del tessuto urbano. L’idea progettuale prevedeva la costruzione di un borgo dove le attività parrocchiali richieste articolavano differenti volumi edilizi, creando spazi pubblici con slarghi e camminamenti che relazionavano i tracciati urbani preesistenti. L’insieme delle differenti parti, ognuna con una propria destinazione d’uso, prende forza grazie all’utilizzazione di un unico materiale. Le configurazioni esterne presentano, infatti, mattoni di laterizio attraverso ampie murature che salgono dal suolo alla copertura, impreziosite negli incroci degli angoli con una particolarità costruttiva semplice e intelligente, che testimonia l’attenzione al dettaglio presente nei bravi costruttori. Le superfici delle pareti in muratura di cotto a vista acquistano forza in ragione della semplicità del linguaggio espressivo che si rifà ai modelli nordici di Alvar Aalto; un felice riferimento per il giovane architetto svizzero che incontra l’architettura organica del maestro finlandese trovando, nel contempo, anche una chiarezza per il proprio registro linguistico. Un esempio positivo di una lettura intelligente della cultura moderna, che nei successivi decenni è stata invece tradita dalle spinte consumistiche alla ricerca di sole immagini, o attratta dai nuovi materiali, o dalla seduzione delle forme iconiche, trascurando le più impegnative soluzioni strutturali.
Questa chiesa di Monza resta un esempio da annoverare nei registri di quegli anni per aver saputo ridisegnare un insieme urbano corretto, migliorando notevolmente un comparto cittadino; una vera alternativa ai “depositi” di singoli edifici di ogni forma e colore che hanno impoverito molte periferie delle nostre città.
Il lavoro appassionato e professionale di un architetto, che vantava anche una ricca esperienza progettuale di temi ecclesiali, ha attuato una sintesi compositiva con un unico materiale che, ancora dopo mezzo secolo di vita, si presenta in buono stato e con grande qualità allo sguardo del pellegrino-visitatore.
La composizione dell’insieme (chiesa, campanile, canonica, spazi di attesa e porticato aperto) diviene un polo aggregativo di qualità, alternativo alla tentazione di addizionare singole parti autonome, come avviene nella maggior parte delle crescite urbane.
Affrontare un progetto con differenti volumi edilizi da aggregare fra loro richiede un “saper fare” professionale con continue invenzioni compositive, come vediamo in questo caso nella combinazione azzardata che lega il campanile alla biblioteca, un’idea sorprendente come osservò monsignor Giuseppe Arosio, che ricordiamo con gratitudine e affetto come paladino della qualità architettonica.
Una breve nota merita anche l’aula assembleare che, configurata all’interno delle linee spezzate perimetrali, presenta uno spazio fluido e organico, semplice e appropriato per lo svolgimento delle attività liturgiche che nella qualità degli spazi trovano la ragione d’essere della loro stessa funzione.