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C’era una volta il Nagorno Karabakh Dove sono gli amici perduti

Antonia Arslan

​Infuria da un mese la guerra asimmetrica in Nagorno Karabakh, il giardino nero del Caucaso, e il cuore mi piange, perché continuo a pensare alle amicizie serene e forti che là ho trovato in tempi recenti, e che mi hanno dato energia, affetto e la gioia di ricevere gesti di una tenerezza quasi infantile.
Ci sono andata per la prima volta cinque anni fa, quando mi invitarono a inaugurare il loro memoriale in ricordo del genocidio armeno. È (forse era, ormai?) un piccolo monumento ben diverso da quello imponente sulla “Collina delle Rondini” a Erevan; eppure era commovente, con la sua scalinata e le tombe ben curate dei soldati caduti nella guerra con l’Azerbaigian del 1992-94. Un conflitto mai finito, mai acquietato, che in tutti questi anni è serpeggiato sottotraccia come una minaccia costante per questo piccolo lembo di terra abitato da circa 150.000 persone.
Gente soda di montagna: una piccola tribù armena che non è stata colpita dal genocidio come i cugini d’Anatolia sterminati dai Giovani Turchi, e ha conservato nei secoli una fiera indipendenza all’ombra dei suoi nobili, i melik del Karabakh. Gente annidata in una delle tante pieghe di quel Caucaso dove ogni valle è abitata da un’etnia diversa, che ha difeso la propria identità culturale e religiosa per secoli, con la stessa naturalezza e decisione con cui l’ha sostenuta dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Ci sono tornata altre volte, in questo paese che i suoi abitanti chiamano Artsakh. E ogni volta me ne innamoravo di nuovo, guardando le donne e i bambini giocare per le strade della piccola capitale Stepanakert dal clima insolitamente mite, o chiacchierando, con le ragazze che gestivano un caffè-libreria, di un’Italia sognata e della Venezia degli armeni.
È lunga la strada per arrivarci, ma affascinante, fino all’alto passo montano dove soffia un vento perenne e sventolano umili e coraggiose bandiere; e soldati dal largo viso di contadini caucasici guardano con tenerezza ammirata e curiosa i passaporti stranieri – senza timbrarli, perché il loro stato non è riconosciuto – e poi te li porgono con ampi sorrisi e ti offrono una barretta di cioccolato.
E nei giorni seguenti conosci l’amicizia, quella vera e solenne, che un giuramento non pronunciato sigilla sulle labbra e nel cuore. È il rettore che ti riceve nel suo studio e ti offre un vaso antico che tiene sulla scrivania, al quale evidentemente tiene molto, ma tu non puoi rifiutare; è la vecchia nonna del ragazzo che ti ha accolto, che prepara con le sue mani il gingalov hatz, delizioso fagottino di pane lavash riempito con tantissime erbette assortite, profumato di spezie e cotto al momento “su un forno che è sempre acceso”, come dice il poeta, e che alla fine ti bacia in fronte; è Arminé, al ragazza dall’occhio d’oro, come mi venne di chiamarla, che perse un occhio per la scheggia impazzita di un proiettile azero, ha un sorriso splendido e parla un inglese dolce e ricercato.
Oggi, in questo triste giorno del 2020, il mio Artsakh è in fiamme. Bombardate le case, le chiese, gli ospedali; volano in aria i droni mortiferi come schegge impazzite del male, gli aerei devastano, sibilano i missili. Le donne sono state mandate in Armenia, disperse e fuggitive, gli uomini combattono senza sosta. Dove sono oggi i luoghi che amavo, dove gli amici perduti?