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a Forlì in mostra le tensioni di un secolo

L’arte del Cinquecento italiano e la ricerca dell’Assoluto: da Michelangelo a Caravaggio

​Antonio Paolucci
La mostra aperta al San Domenico di Forlì è oggettivamente grandiosa. Circa duecento le opere esposte, chiamati a raccolta i grandi nomi della storia dell’arte italiana. Non solo Raffaello e Michelangelo, Tiziano e Caravaggio, ma anche Pontormo, Rosso Fiorentino, Correggio, Sebastiano del Piombo, Lorenzo Lotto. E poi ancora Federico Barocci, Ludovico e Annibale Carracci, Guido Reni, Pietro Paolo Rubens, El Greco fra gli altri. Percorrere la mostra significa attraversare il manuale base della nostra storia artistica fra Cinquecento e Seicento: dalla prima Maniera fiorentina di Rosso e Pontormo alla scoperta del “vero” svelato dalla luce nell’opera di Caravaggio.
Il titolo “L’Eterno e il Tempo” abbraccia con efficacia l’argomento dell’esposizione. Perché il Tempo è quello storico, drammatico e calamitoso, che si colloca fra il Sacco di Roma (1527) e le guerre di predominio e di religione; guerre destinate, prima e dopo il Concilio di Trento (inaugurato nel 1545), a devastare e a insanguinare l’Europa. Mentre l’Eterno sta a significare l’ansia di assoluto, la tensione spirituale, il confronto e il dibattito religioso che, tra Riforma evangelica e Controriforma cattolica, attraversarono il secolo.
Centrale è stato nel periodo il ruolo della Chiesa. Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse al tempo della Controriforma come a un’epoca esclusivamente di rigorismo e di oscurantismo. Le arti figurative riflettono le inquietudini che caratterizzano il secolo. Inquietudini che a qualcuno sono sembrate di matrice valdesiana, se non anche criptoluterana, e che sono riscontrabili nell’opera di Michelangelo (la cappella Paolina, il Cristo della Minerva, i sonetti degli anni tardi), nei protagonisti del circolo viterbese di Vittoria Colonna e di Reginald Pole, in certe inclinazioni di Sebastiano del Piombo (la Pietà del Museo Civico di Viterbo) e di Lorenzo Lotto, spirito di cristiano angosciato e solitario quest’ultimo, continuamente errante fra la Bergamasca e le parrocchie e i santuari delle Marche.
Certo, ci furono trattatisti ultraclericali che, sul modello dell’Indice dei libri proibiti, proposero, per fortuna senza successo, l’istituzione di un Index imaginum prohibitarum. E ci fu chi, su pressione dei circoli gesuiti, tentò di imporre in pittura un’arte misticheggiante e disincarnata. È l’arte che Federico Zeri definì “senza tempo” di Scipione Pulzone e di Giuseppe Valeriano. Persino il Giudizio di Michelangelo, nella Sistina, all’epoca ancora fresco di intonaco, sembrò inaccettabile agli spiriti più zelanti pervasi di misticismi e di rigorismo etico, e ci fu chi, in pieno Concilio, ne propose l’eliminazione.
In realtà il Concilio di Trento, lungi dall’imporre nell’arte sacra prescrizioni e divieti, si limitò a consigliare forme figurative convenienti e verosimili, fedeli ai testi scritturali, rispettose della verità storica, aliene da profanità e da lascivie, in grado di spiegare e di convincere senza eccessi e senza stravaganze. Soprattutto, e fu un’idea geniale, il Concilio decise di affidare ai vescovi il controllo dell’arte sacra e i vescovi, nella generalità dei casi, erano in grado di riflettere, di condividere e spesso di favorire le plurali e variegate culture artistiche dei territori loro affidati. A differenza degli assolutismi del XX secolo, la Chiesa non ha imposto un’arte ufficiale. Se così fosse stato, un gelido inverno avrebbe conosciuto la storia dell’arte. Invece, attraverso i suoi vescovi, nella diversità dei contesti socioculturali, ha “lasciato fiorire i cento fiori”, ha permesso che molte scuole si confrontassero e si affermassero.