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Se la città spiazza i poeti

Salvo poche eccezioni, la piazza non è tema da poesia: l’origine del rito e della tragedia, infatti, non è urbana

​Roberto Mussapi

La piazza non è luogo dei poeti. Esemplare quella piccola e paesana di Leopardi nel Sabato del villaggio: i fanciulli che fanno «lieto romore» gridando «su la piazzuola in frotta» rappresentano l’umanità, raggruppata, nell’età innocente della speranza che dalla vita sarà elusa. Si radunano sulla piazzola, ma, prevede il poeta, quel convivio è illusorio, presto cadrà su ognuno la solitudine.
La piazza è un teatro illusionistico più di ogni teatro, la folla vi converge cancellando l’individualità della persona, mortificando lo spirito di chi, solitario, può parlare esclusivamente dell’Infinito, della luna. Convinto, come Leopardi, di parlare esclusivamente all’infinito, alla luna. In realtà Leopardi poeta, perso nella sua dolorosa e straziante beatitudine, coglie il cuore dell’universo, mentre l’uomo Leopardi si sbaglia: sta parlando a una piazza che non vede, a lettori di tutto il mondo, anche di età a venire. L’atteggiamento dei poeti è affine a quello leopardiano. Il poeta massimo, Dante, racconta di un viaggio dalla tenebra alla luce, ascesi assoluta; Coleridge dell’avventura di un marinaio e un albatro bianco angelico nei mari estremi; Shelley parla al vento, alla nuvola, Keats all’usignolo e all’urna greca, urna che è il contrario della piazza: dove questa mette tutti insieme e alla luce, quella custodisce nell’ombra silente ed eterna. Baudelaire, il primo poeta moderno, come scrisse Eliot, parla di Parigi, ma delle vie buie e polverose, degli angoli, dei balconi, della città tentacolare e segreta. Ma Coleridge e Shelley e Keats, e Baudelaire, che non si soffermano sulla realtà fisica e urbana della piazza, stanno parlando alla grande piazza del mondo. Alcuni poeti intuiscono questa realtà e si soffermano sulla piazza concreta: Orazio vive il ritmo della grande città e delle sue piazze, come accadrà a Goethe nelle Elegie romane.
Può sembrare strano che la piazza non entri nella mitologia dei poeti, se la civiltà occidentale, con i suoi fasti filosofici e poetici e artistici, nasce nella piazza: trova il suo centro urbano nell’agorà (da “agheiro”, unisco, raduno), termine che nell’antica Grecia indicava la piazza. Cuore della polis ove, in origine, sorgevano santuari religiosi e teatri. È corretto quindi affermare che la piazza, il luogo in cui accorrono molti cittadini della polis, in cui di fatto tutti si incontrano, è il luogo che vede nascere il rito, da cui sorge la poesia. Paradossale, apparentemente, il fatto che la piazza non sarà un luogo canonico, e nemmeno frequentato, dalla poesia. Certo nell’agorà sorgono templi e teatri, ma l’origine del rito e della tragedia non è urbana. Rito e teatro nascono nel bosco, nelle grotte, in un tiaso improvvisato tra piante e cespugli. La loro “edificazione” nel cuore della città ne costituisce una monumentalizzazione. Tempio e teatro divengono istituzioni accanto a cui sorgono le altre istituzioni della polis, l’agorà diviene cuore commerciale – vi si discutono questioni legali, si dibatte –, diviene il simbolo della democrazia e quindi dello scambio di pensiero, contemporaneo e associabile alla nascita della filosofia di Socrate e Platone, successiva all’età fanciullesca ed eroica dei presocratici, avventurosi pensatori, fisici e poeti. L’agorà è il tempio dei filosofi: in nome dell’agorà, del dibattito e del logos, della conversazione alla luce del sole, dell’armonia della città, cioè dello stato, Platone invita a cacciare i poeti dalla polis, a esiliarli a causa del contenuto destabilizzante delle loro divinità, dell’irruzione del caos nelle ordinate e ben illuminate stanze della città ideale. L’agorà è il simbolo della cacciata dei poeti. E il loro luogo è proprio quello che Platone, coerentemente al suo ripudio dell’arte, rappresenta come simbolo dell’inganno: la caverna.[...]