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Rubens, il fasto del colore

A Milano una esposizione sul grande pittore fiammingo che è stato tra gli “inventori” del Barocco

​«Fu egli di statura grande, ben formato e di bel colore e temperamento; era maestoso insieme ed humano, e nobile di maniere e d’habiti, solito portare una collana d’oro al collo e cavalcare per la città». Chi viene descritto così, in un ritrattino che sembra quello di un tranquillo aristocratico del suo tempo, è Pieter Paul Rubens, uno dei maggiori artisti del Seicento. E uno dei meno misurati, a dispetto della descrizione bon ton (stilata peraltro dall’autorevole Bellori), tanto che è considerato uno dei precursori e insieme degli iniziatori del Barocco.
Guardiamo, per esempio, il grande dipinto La scoperta di Erittonio fanciullo, 1615-16, che è l’immagine guida della mostra in corso a Palazzo Reale a Milano. Erittonio è un personaggio fra i più foschi della mitologia greca. Nato da una gravidanza del tutto casuale di Gea, la Terra (era stata Atena che l’aveva colpita con uno straccio intriso del seme dell’odiato Efesto), il bambino viene alla luce deforme e con due serpenti al posto delle gambe o, secondo altre versioni del mito, ha una coda con un serpente. Atena, pentita del suo gesto, lo chiude in una cesta ben sigillata che affida alle tre figlie di Cecrope, ordinando loro di non aprirla. Le tre ragazze ovviamente disubbidiscono e altrettanto ovviamente sono punite. Erittonio, invece, ha un destino migliore: Atena decide di crescerlo da sola e lui, divenuto adulto, diventa il re della città di Atene e onora la dea collocando una sua grande statua sull’Acropoli.
Del complesso mito Rubens sceglie il momento in cui le tre ragazze (Aglauro, Pandroso ed Erse: nomi quanto mai irti, che però significano splendore e rugiada) scoprono la cesta, violando l’ordine ricevuto. E dipinge una composizione che più affollata di così non si potrebbe. Non contento di dover far spazio alle tre protagoniste della vicenda e al bambino, inserisce anche un amorino e una figura di vecchia, forse in funzione di ammonitrice. Ma non gli basta. Aggiunge ancora un cane e un grosso vaso, e dispone tutto su una stretta balaustra, in modo che il primo piano si comprima in pochi centimetri. Poi, nello spazio rimasto libero sullo sfondo, colloca una statua di Diana Efesina e una vegetazione lussureggiante, simbolo di rigogliosità, mentre un satiro, e un pavone, emblemi rispettivamente dell’energia vitale e dell’eternità, si intravedono in lontananza. Al traboccare degli elementi corrisponde un traboccare delle forme, dei corpi, delle carni. E proprio quell’eccesso, quel rigoglio, quella dismisura che supera la misura armoniosa del Rinascimento e quella estenuata del Manierismo è una delle radici del Barocco.

di Elena Pontiggia