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Nella Firenze di Raffaello, la nuova Atene

Il periodo toscano di Raffaello, tra 1504 e 1508, coincide con uno dei vertici artistici e culturali della città

​Antonio Natali


Viene naturale associare la fama di Raffaello alle sue imprese romane. E se ne può ben capire la ragione: è proprio nella dozzina d’anni della permanenza nell’Urbe che gli toccano le committenze più ragguardevoli della sua breve ma intensa vita. È a Roma che la sua espressione tocca il tenore più alto. Non di meno per avere nozione chiara dello svolgimento del percorso di lui, si rende necessaria una riflessione sul soggiorno a Firenze, durato quattro anni (dal 1504 al 1508); giacché è in riva d’Arno che egli compie quella sterzata linguistica che appunto a Roma troverà rivelazione piena.
Educatosi all’arte col padre Giovanni Santi, Raffaello arriva a Firenze poco più che ventenne, dopo aver frequentato maestri di riguardo come il Perugino e il Pintoricchio. Anche se tuttora si discute sull’autenticità della lettera con la quale la duchessa d’Urbino, Giovanna Feltria, lo raccomanda al gonfaloniere Pier Soderini, riesce comunque agevole presumere che fosse davvero intenzione del giovane sperimentare la vivacità della cultura fiorentina e magari ricevere incarichi d’un qualche peso. Certo è che la città viveva in quegli anni – siamo nel mezzo della Repubblica soderiniana (1502-1512) – un’età dell’oro. Firenze, ancorché non godesse di un’economia com’era stata nella stagione medicea di maggiore rigoglio, è veramente una nuova Atene; e i forestieri lo sanno. Arrivano difatti anche artisti d’Oltralpe, specie spagnoli; pittori e scultori che lavorano spalla a spalla coi colleghi fiorentini e italiani.
È perfino difficile immaginare quel clima. Per farsene però un’idea almeno attendibile basterà pensare che proprio nel 1504, quando Raffaello arriva, si svolge un convegno che da solo potrebbe bastare a dar la misura della grandezza di Firenze. Il 25 gennaio di quell’anno, quando Michelangelo sta portando a compimento il David, gli Operai dell’Opera del Duomo convocano un manipolo d’artisti di gran nome perché esprimano un parere riguardo al luogo più conveniente dove erigere il “gigante” (così le carte coeve definiscono la statua di Buonarroti). Il dibattito che fra loro s’apre viene registrato in un verbale, conservato nell’Archivio dell’Opera, che di per sé è documento eccezionale di un’epoca irripetibile.
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