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Maremma benedetta

Viaggio tra monasteri, cripte ed eremi che fecero di questa terra una delle capitali dell’ora et labora

​«In questa diocesi, nulla è più insigne per devozione quanto quel luogo prossimo al paese di Castiglione della Pescaia, chiamato un tempo Stabbio di Rodi, ove si conservano le sacre reliquie di san Guglielmo eremita». Così scriveva nel 1607 Giulio Sansedoni, vescovo di Grosseto e confidente di Filippo Neri, a proposito dell’eremo di Malavalle. La biografia di Guglielmo è tuttora coperta da non poche zone d’ombra, tra qui pro quo, interposizioni leggendarie e ricorrenti preconcetti. È pacifico che nacque in Francia e visse nel XII secolo, fu guerriero valente e dalla personalità irruenta. Dopo alterni tentennamenti sposò la vita eremitica, vivendo tra penitenze e ascetismo radicale. L’ultimo approdo del suo peregrinare fu l’anfratto di macchia mediterranea dal sinistro nome di Malavalle, dove morì nel 1157. Il sito divenne rapidamente meta di pellegrinaggio, mentre la fama dell’eremita fu talmente incisiva da ispirare la fondazione dell’ordine religioso dei Guglielmiti, diffusosi rapidamente in Italia e in larga parte dell’Europa centrosettentrionale.
L’eremo subì distruzioni già nel Medioevo, quando parte delle reliquie del santo furono trasferite a Castiglione della Pescaia. Sorge poco a est del paese e si raggiunge con un’ora di piacevole passeggiata su sentiero forestale. La macchia non è più repulsiva come un tempo, ma è stata sapientemente addomesticata. La chiesina, tuttora destinazione di saltuari pellegrinaggi, rappresenta la parte più antica del complesso e si presenta sostanzialmente intatta, mentre degli annessi – riedificati tra il XVI e il XVII secolo per iniziativa dell’eremita agostiniano Giovanni Nicolucci, morto in odore di santità – non restano che scarse muraglie colonizzate dalla vegetazione.
A mezzogiorno di Malavalle si apre la piana grossetana, vero cuore della Maremma. Un tempo questi spazi erano in gran parte occupati dal Prile, vasto lago salmastro comunicante col mare, sfruttato già in epoca romana come riserva di pesce e di sale. Al suo interno, su un’isola (oggi non più tale), sorse la villa del nobile Clodio, ricordata da Cicerone, mentre nel Medioevo vi fu edificato il cenobio benedettino di San Pancrazio, più noto come Badia del Fango. Del complesso restano solamente alcuni frammenti della chiesa, ma vale comunque la pena percorrere il breve sentiero dai Ponti di Badia per il colpo d’occhio finale sulla palude della Diaccia Botrona e la sua avifauna. All’abbandono del monastero contribuì certamente la difficile convivenza con la zanzara anofele, catalizzatore fondamentale della malaria, flagello plurisecolare di questa terra e origine del motivo culturale della “Maremma amara”, piegata e piagata, ma infine risorta attraverso gli imponenti lavori di bonifica condotti a più riprese nel tempo. L’abate di San Pancrazio compare in un contratto del XII secolo mentre negozia una permuta di terreni con il suo omologo dell’abbazia di Sestinga.

di Paolo Angelo Poli