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Le ultime parole di Cristo sulla croce

La morte di Gesù sul Golgota tra storia, Vangeli e poesia

​Gianfranco Ravasi


"La nera barba pende sopra il petto. / Il volto non è il volto dei pittori. / È un volto duro, ebreo. / Non lo vedo / e insisterò a cercarlo / fino al giorno / dei miei ultimi passi sulla terra".
È un frammento della poesia Cristo in croce, datata “Kyoto 1984”, che Jorge Luis Borges compose a poca distanza dalla morte avvenuta nel 1986. La sua è un’intuizione profonda: ogni persona, credente o agnostica, ha nella propria immaginazione un volto del Cristo crocifisso, così come ogni artista – nella folla immensa di coloro che l’hanno rappresentato – ha identificato un suo profilo di quell’uomo che ha saputo concentrare in sé, su quel legno piantato nel colle del Golgota, il dolore universale. Una traccia nelle carte profane.
Il realismo della crocifissione è per i Vangeli il suggello autentico dell’Incarnazione: il Figlio di Dio assume la specifica “carta d’identità” dell’umanità, che è il soffrire e il morire, qualità “impossibili” all’eternità e alla perfezione divina. Attraversando realmente il terreno proprio di ogni uomo e donna, quello del limite, della finitudine, della sofferenza e della morte, egli diventa veramente nostro fratello. È in questa luce che si comprende l’ampio e fin sproporzionato spazio riservato dai Vangeli alla passione, morte e resurrezione di Cristo – in tutto durata una manciata di ore – rispetto agli anni del suo ministero pubblico.
Ed è interessante notare che ciascun evangelista lo ha fatto secondo un suo sguardo. Ne era consapevole curiosamente già nel ‘300 Geoffrey Chaucer che, nei suoi celebri Racconti di Canterbury, affermava: «Voi sapete che ogni evangelista non ci narra il martirio di Gesù Cristo del tutto allo stesso modo del suo compagno. Eppure tutti i loro racconti sono veri e tutti concordano nel senso che, se pur vi sono discrepanze nel modo del racconto, perché uno dice di più e l’altro di meno nelle pagine che descrivono la sua compassionevole passione, il significato generale è però indubbiamente uno solo» (Racconto di Melibeo).
L’esecuzione capitale di Gesù di Nazaret avvenne probabilmente nella primavera dell’anno 30, quando il condannato aveva circa trentasei anni. Una traccia di quel truce fatto di sangue è rimasta anche nelle carte imperiali, come annotava Tacito (55-120 circa) nei suoi Annali quando, menzionando la persecuzione anticristiana di Nerone, affermava che «essi prendevano nome da Cristo, che era stato condannato al supplizio ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio» (15,44,3). [...]