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La natura ci guarda

La letteratura è ricca di incroci di sguardi tra uomini e animali di ogni specie: incontri rivelatori, come in uno specchio

​Alessandro Zaccuri


Prima di parlare, la Natura guarda. E «fissamente», osservando un silenzio che incute nell’Islandese una soggezione proporzionata a quella «forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna». È un incontro che non si dimentica, questo descritto da Giacomo Leopardi nelle Operette morali. L’Islandese ha lasciato la sua isola tra i ghiacci per sottrarsi alla tirannia della Natura, sta vagabondando nel cuore dell’Africa ed ecco che gli si para davanti una gigantessa dalla parvenza di roccia, che lo guarda, lo ascolta e infine pronuncia la terribile sentenza: «Io sono quella che tu fuggi».
Non si scappa dalla natura, non ci si sottrae al suo sguardo, che non manca di suscitare negli esseri umani una soggezione difficile da giustificare. Può essere la memoria di antiche leggende, come quella del basilisco, i cui occhi hanno il potere di trasformare in pietra i malcapitati. Più letale di così, commenta Geoffrey Chaucer nei Racconti di Canterbury, è solo la leggerezza con cui uomini e donne ammiccano gli uni alle altre, alimentando il vizio della lussuria. Nella maggioranza dei casi, però, lo sguardo della natura risulta inquietante di per sé, senza bisogno di ricorrere a spiegazioni moraleggianti. Durante una delle sue passeggiate nella campagna senese, per esempio, lo scrittore Federigo Tozzi si imbatte in un ramarro: «Mi fermai, perché non scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna» (da Bestie, 1917).
Di solito sono gli animali a farsi messaggeri del sentimento di improvvisa inadeguatezza che lo sguardo della natura risveglia. Forse perché «gli occhi del cielo» sottraggono ciascuno di noi all’illusorio «privilegio di essere / singolare», come canta la poetessa statunitense Louise Glück, premio Nobel 2020, in una composizione della sua raccolta L’iris selvatico. O più semplicemente perché ci fanno sospettare di non saperla poi tanto lunga. In Padrone e cane un altro premio Nobel, Thomas Mann, si sofferma con particolare attenzione sull’«espressione di assennata rettitudine» che lo sguardo conferisce a Bauschan, il suo compagno «un po’ pinscher e un po’ bracco»: «L’occhio è bello, dolce e intelligente, se pure forse un po’ vitreo e sporgente. L’iride è di un color bruno ruggine uguale alla tinta di fondo del mantello; ma forma solo un sottile anello a causa di un’enorme dilatazione delle splendenti pupille nere, e poi il suo colore digrada nel bianco della cornea e vi s’immerge». Una descrizione accuratissima, che presuppone l’ipotesi di una sapienza arcana nascosta dietro a quello sguardo apparentemente estraneo al dominio del linguaggio.
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