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La domanda nel buio

Nei poeti la bellezza autentica può nascere dal profondo della disperazione

​La speranza muove alla bellezza e la bellezza a sua volta muove alla speranza? Si comportano davvero così queste due sorelle un po’ terribili e irrefrenabili? Potresti pure per un istante confonderle, hanno diverse somiglianze. Ad esempio, una sfida simile negli occhi: per loro il tempo non è un avversario invincibile. Però sono due bambine diverse. Hanno i piedi per terra e la testa chissà dove. Il cuore di certo l’hanno in giro come un bambino curioso.
Gli artisti, gli scrittori, i poeti e tutti coloro che si aggirano intorno alla bellezza e ai suoi problemi hanno un conto aperto con la sorella speranza. Anche i piu disperati tra i creatori di cose belle sono inseguiti dall’inquietudine dell’altra bambina – come la descriveva Péguy – che li fissa e chiede: “E io?”.
«Nulla speme m’avanza omai», dice Leopardi, indicato da una critica novecentesca spesso superficiale come un nichilista contemporaneo, mentre è un pessimista biblico che fa i conti con le false speranze della modernità. Non ha speranza, lui creatore di bellezza, di incontrare in terra l’ideale di bellezza (la “cara beltà”) – non crede a nessun paradiso terreno – e la vita dunque sembra condannata a trascorrere nella dura condizione dell’“ignoto amante”. Nulla infatti è più duro che vivere con una speranza bloccata. Una speranza impossibile?
Lui stesso, ancora, infatti ne il Canto del pastore errante si chiede: «Ma perchè dare al sole, / Perchè reggere in vita / Chi poi di quella consolar convenga?». La vita senza speranza o meglio, nel caso di Leopardi, senza speranza terrena, appare mossa comunque da qualcosa – la “miccia verde”, la chiamava Dylan Thomas – che non si placa nemmeno se si afferma, appunto, la mancanza della speranza. Anzi, quanto più forte è il senso dell’esistere privo di speranza tanto più, in alcuni spiriti, diviene famelica la ricerca di bellezza. Ne fu esempio D’Annunzio che al finire dei suoi giorni, scrivendo un epitaffio per i suoi cani, definiva l’uomo «il cane del suo nulla». E che provò a fare della propria vita un tempio della bellezza e della preziosità impareggiabili. Un tempio tragico, abitato da mille seduzioni e trucchi intorno a una «esatta coscienza quadrata»: la vita è finzione, è «senza mutamento».
A volte sembra proprio la disperazione a muovere la fame di consolazione nella bellezza, specie quella artistica. Lo mostra, negli anni Venti del ’900, ad esempio il fiorire della cosiddetta Art Déco e dei suoi infiniti stupefacenti ninnoli in ogni ambito della vita e della società proprio in un momento – tra le due guerre mondiali – in cui una certa cupezza dominava gli animi. Qualcosa di simile avvertiamo ora, in un’epoca di “guerra mondiale a pezzi” come dice il Papa, allorché si vedono prevalere forme di arte e di eleganza improntate al gioco, al divertissement intellettuale, alla diteggiatura sulla spirale dei nervi, alla carineria infinita.

di Davide Rondoni