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Il dilemma delle due città

Gerusalemme, più celeste per i cristiani, più terrena per gli ebrei. Ma preferire l’allegoria alla storia significa non comprendere la Redenzione

​"Ma di Sion sarà proclamato: Ogni uomo è nato in essa […]. E insieme danzeranno cantando: In te le nostre fonti!" (Sal 87, 5.7). Da secoli ebrei e cristiani pregano queste parole del salmo, le mormorano con amore, le ruminano con speranza, le proclamano con fede: ogni uomo è nato in Gerusalemme e tutti hanno in essa le loro sorgenti. Sono sufficienti questi due versetti per porre davanti ai nostri occhi il mistero di Gerusalemme, la sua vocazione, la sua qualità di luogo in cui "il Signore ha posto una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata" (Is 28,16), ma che diventa anche pietra d’inciampo (Is 8,14; Rm 9,33; 1Pt 2,8): di fronte a Gerusalemme – “città di pace” o “visione di pace” – ebrei e cristiani si dividono.

Vale qui il principio secondo cui il nome racchiude il destino (nomen omen), o meglio, in questo caso, la vocazione; ma il destino, la vocazione di Gerusalemme è letta in modo differente, secondo una diversa prospettiva, da ebrei e cristiani. Anche la relazione con Gerusalemme rende manifesto lo scisma tra Israele e la Chiesa, uno scisma che purtroppo non è stato contrassegnato solo dalla “gelosia” (Rm 11,11) ma anche dall’ostilità e, da parte cristiana, dal disprezzo, fino alla persecuzione nei confronti dell’olivo su cui è innestato l’oleastro (Rm 11,16-24), cioè l’ecclesia ex gentibus, la Chiesa proveniente dalle genti. Occorre dunque essere chiari: anche quando proclamiamo gli uni gli altri Gerusalemme come “l’unica e l’universale”, non lo diciamo allo stesso modo e siamo come impediti ad affermarlo con i medesimi sentimenti......

di Enzo Bianchi