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I poeti che hanno cantato il dolore profondo

Da Ungaretti a Montale a Luzi, da Villon a Keats: la sofferenza e la speranza nei testi dei poeti

​Roberto Mussapi


La malattia del Novecento, è il male di vivere. Età dell’ansia, per Auden, il tempo degli Uomini vuoti e della Terra desolata, per Eliot, che saprà vedere cosmicamente questa situazione, rovesciando i segni di desolazione in germi e promesse di rinascita. Tempo di crisi, di progressiva demitizzazione, desacralizzazione, di solitudine spesso cieca, che i poeti sentono e a cui la loro opera spesso si contrappone, dallo stesso Eliot a Yeats, che riscopre la salute della natura e del mito, e la capacità curativa della magia, terapia rigenerante per il male dell’anima, l’accidia, quel male che i medici salernitani del Duecento avevano attribuito all’assalto del paralizzante, impaludante demone meridiano. E l’appello alla vita di Bonnefoy e Milosz, l’incanto divino del mondo nella straordinaria epopea di Derek Walcott, l’inno incessante di Mario Luzi a una “conoscenza per ardore”: «tu cantami qualcosa pari alla vita».
Eugenio Montale, uno dei grandi del Novecento, e della triade massima della ricchissima poesia italiana di quel secolo, è il cantore assoluto di questa crisi, di questo senso del nulla, disperazione. Resiste con la parola, la poesia, e quando nasce poesia il dominio del nichilismo non è trionfale. Ma i versi di Montale attestano un senso di resa e di sconfitta, stoica, dell’uomo, di fronte a ogni illusione. Questo il senso della celebre lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, scritta nel 1924, osso del famoso Ossi di seppia.
Al contrario un altro dei tre grandi, Giuseppe Ungaretti, è il poeta della vita, di cui il dolore è componente necessaria. Il dolore è una delle raccolte più alte del poeta, e contiene un poema in diciassette parti, Giorno per giorno, dedicato al figlio Antonietto, morto all’età di otto anni per un’appendicite malcurata. Diciassette liriche, di cui qui leggiamo quelle iniziali. La prima si apre con un gemito del bimbo: «Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…», e il suo volto scarno, già consumato dalla morte, su cui brillavano ancora gli occhi, pieni di giovane vita. La lirica rievoca, prima ancora che la morte, lo strazio della malattia, il volto spento del bambino, gli occhi ancora vivi.
Il senso della vita è al centro dell’opera di uno dei supremi poeti del Novecento e non solo, Mario Luzi, per me il più grande della triade. Nei versi scelti per queste pagine, uno straziante viaggio verso i luoghi di malattia, cura e morte, in una parte della città disertata di case.
Incontri, vite sospese che si reincontrano a dialoghi spezzati e franti. Delirio di lucciole nella sera, la mente vola come le rondini verso l’alto purissimo, ma larve ne corrodono il nido, le fondamenta vitali. Il buio è illuminato da cascate di lucciole: luce che appare come un miracolo, ma più che effimera. Luce che dura un attimo, come la vita che la porta e accende. Salute e malattia, mormora la voce, salute e malattia, nel mistero della vita e del mondo, svela «questa conoscenza avuta a sprazzi nel buio».
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