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Annunciare il Vangelo nel mondo liquido

Domenico e i suoi discepoli hanno vissuto un tempo di crisi e di grandi cambiamenti: la scelta di vita nel segno della fratellanza e della passione per la verità, l’essere liberi da pregiudizi e aperti all’incontro, sono risposte per i nostri giorni

​Timothy Radcliffe

Che cosa ci dice oggi san Domenico? Si potrebbe pensare che, ottocento anni dopo la sua morte, egli abbia poco da offrire a noi, oggi, cittadini del mondo digitale del ventunesimo secolo. San Domenico apparteneva a quel periodo che l’Illuminismo europeo chiamava “i secoli bui”, un’epoca, si pensava, di superstizione e autocrazia, di Inquisizione e Crociate. Eppure le sfide che san Domenico si trovava ad affrontare non erano diverse da quelle di oggi e, per questo motivo, i suoi insegnamenti sono ancora rilevanti.
Le città all’epoca di san Domenico erano in gran subbuglio. I vecchi rapporti del feudalesimo si stavano indebolendo. La cultura della deferenza era in declino. Mercanti come il padre di san Francesco d’Assisi viaggiavano in tutta Europa e anche oltre. Vi era una mini globalizzazione in atto. Era possibile incontrare gente straniera. Idee nuove circolavano nelle università, nate nella prima metà del XII secolo. In questo mondo “fluido” le persone si facevano domande sulla loro identità.
Anche il nostro mondo è in transizione. Le vecchie identità, costruite attorno alla famiglia, all’appartenenza a una comunità locale, alla religione e anche al genere sessuale, vengono, oggi, messe in discussione. In questo mondo anonimo del continente digitale siamo in costante rapporto con gli stranieri. Le identità non vengono più ereditate, come capitava in passato, ma sono spesso scelte. Il “sogno americano” può essere quel che chiunque desidera. Sul web le persone hanno spesso identità plurime, levigate ed etichettate, come piace a ciascuno. Così la domanda che molti si pongono è: «Chi mi piacerebbe essere?». Nel mondo che Zygmunt Bauman chiama “la modernità liquida” i rapporti con gli altri sono spesso fonte di incertezza e di ansia.
Quei domenicani e francescani di quasi mille anni fa ci hanno offerto un tipo di identità nuova e insieme antica, che parla anche a noi uomini di oggi. Erano frati, “fratres”, che significa “fratelli”. Per san Domenico le sorelle venivano al primo posto. Domenico, un canonico e un sacerdote, si è sempre fatto chiamare “Fratello Domenico”. Ha rifiutato qua­lunque status, anche quello di grande fondatore dell’Ordine dei Predicatori. Era soltanto un membro della comunità, uno dei compagni. La sua prima biografia è contenuta nelle Vitae Fratrum (Le vite dei fratelli). E con l’antichissimo titolo cristiano di “fratelli” ha voluto indicare i membri dell’Ordine. Il domenicano Marie-Dominique Chenu ha spiegato che, ogni volta che vi è un ritorno della fede, riappare la parola “fratello”. «La parola tipica delle prime comunità cristiane ritrova il suo significato più vero. Le persone vengono chiamate fratelli o sorelle in un gesto di sfida verso le disuguaglianze sociali e con tutta la carica utopica di quelle parole. Il capo del gruppo dei domenicani, che arrivava a Parigi per la prima volta, veniva ancora chiamato, secondo le abitudini dell’epoca, “abate”. Entro tre mesi questo titolo veniva abbandonato e veniva chiamato “fratello priore”».
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