I sogni di Tangeri

di Alessandro Tamburini

Viaggio nell’affascinante città del Marocco, divisa tra due mari, e a lungo capitale di un mondo senza regole

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Il faro di capo Spartel / Unsplash

Approdato a Tangeri nel 1862, Edmondo De Amicis riferisce di aver esplorato la città «sbalordito e con l’immaginazione in tumulto», con un senso nuovo e confuso di sé, come «d’uomo trasportato dalla terra in un altro pianeta». E Pierre Loti, due decenni dopo, scrive di una «violenta impressione d’Africa», e di provare «il sentimento di un improvviso rimbalzo attraverso i tempi anteriori».

Tante cose sono cambiate da allora, ma Tangeri è ancora la porta d’Africa, l’altra colonna d’Ercole. Anche per lo smaliziato viaggiatore odierno la traversata dello stretto di Gibilterra è emozionante e l’impatto della città rimane forte. La luce pare più intensa, forse perché riflessa dall’Atlantico e dal biancore niveo delle case della Medina. Poi il richiamo del muezzin alla preghiera, la gente che indossa per lo più gli abiti tradizionali, le donne con l’ovale perfetto del viso disegnato dal velo: tutto contribuisce a una percezione di altrove, di un diverso continente. Dipende anche dalla densità dei colori, gli stessi che ispirarono a Matisse la Finestra a Tangeri, più di un secolo fa. Dal sapore speziato dell’aria, dalla dizione enfatica e aspirata della lingua araba, con le poche vocali pronunciate in modo per noi quasi indistinguibile.

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