Virgilio a Milano
Scoprii Milano nel cuore di una primavera infinita. O così mi sembrava in quell’anno intenso, in cui cominciai finalmente a vedere con occhi nuovi questa grande città del Nord, verso la quale – in modo un po’ provinciale – nutrivo una certa timorosa diffidenza. Avevo girato Parigi a piedi e in metropolitana con molto fervore, e anche abitato ad Amburgo; Roma mi era familiare, ci vivevano i nonni, e aveva così tante facce, tante strade, tante sorprese. Milano mi era più estranea. La immaginavo monocroma, avvolta nei vari toni del grigio.
Ma quella volta ci andavo con uno scopo e una meta: occuparmi dell’archivio privato di Neera, la più milanese delle scrittrici italiane, conservato con cura attenta dal nipote Corradino Martinelli. Lei, la bella signora dagli occhi nerissimi che amava la nebbia e le piogge del Nord, orgogliosa della sua città che descrisse con amorosa ironia, e lui, l’ottantenne custode delle memorie di lei, intrecciate a quelle della stessa amata città.
Diventammo presto grandi amici. Lui fu per me il vispo Virgilio che conosceva a memoria il percorso di tutti i tram, autobus, linee della metropolitana. Insieme ci muovevamo da un mezzo all’altro, e lui non si perdeva e non sbagliava mai: io mi lasciavo trasportare e mi divertivo pazzamente. Seduti vicino, parlavamo fitto fitto di quello che si vedeva e di quello che lui vedeva con gli occhi della memoria, oltre i bombardamenti e le distruzioni del dopoguerra. Faceva apparire come in un rilievo la nervatura antica della città, e poi il suo ampliarsi di capitale. Da San Simpliciano a Porta Romana, dalle facciate liberty alle piccole chiese nascoste, alla maestà del Duomo, dagli angoli segreti della Galleria, un po’ troppo vistosa nel suo orgoglio umbertino, alla mole assira della Stazione Centrale, mi fece scoprire le cento nascoste bellezze delle strade, dei giardini e dei palazzi di Milano.
E poi mi raccontò, in lunghi pomeriggi davanti a tè molto leggeri, come ci si viveva alla fine dell’Ottocento, com’erano mescolate le classi sociali, e come ogni casa signorile fosse circondata da abitazioni popolari, nella varietà di tanti mestieri, dal fabbro alle lavandaie, dal panettiere al verduraio. Parlava spesso in un dialetto limpido e difficile, usando con naturalezza espressioni e proverbi che mi ricordavano Carlo Porta: ma non erano citazioni, quello era proprio il suo modo di esprimersi, alternando le lingue per ottenere la massima efficacia.
Abitava vicino a via San Vittore: e man mano che passavano i mesi e io ritornavo all’archivio, quella zona cominciai a sentirla come casa, da Sant’Ambrogio a piazzale Baracca, e un po’ alla volta la città divenne ai miei occhi colorata e vivace, nel flusso costante del suo instancabile respiro.